di Paolo Pizzuti
Lungo i secoli, la vita della Chiesa è sempre stata segnata da momenti di prova, eresie, scismi, persecuzioni cruente, tentativi di riforma … in somma non c’è mai stato un periodo di calma totale e forse mai ci sarà.
Il tempo in cui è vissuto San Bruno è stato anch’esso un momento di gravi difficoltà: problemi interni alla comunità cristiana che ferivano dolorosamente la sua santità e la sua comunione, problemi con l’autorità imperiale che cercava di limitarne fortemente la libertà e condizionarne l’esercizio della sua missione.
Conoscere allora il contesto storico in cui San Bruno è vissuto ci aiuta a capire la grandezza della sua figura e la fecondità del suo operato. Inquadrarlo nel periodo dei secoli XI e XII, a cavallo dei quali si è svolta la sua vicenda terrena, ci fa conoscere il calibro delle persone con cui il vescovo di Segni si è confrontato, con le quali ha spesso lottato e discusso, per ricordarci, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la sua alta caratura, la sua importanza nella vita della Chiesa e della società di quel tempo.
Gli anni in cui è vissuto San Bruno sono quelli che vengono caratterizzati dalla Riforma Gregoriana, cioè dal rinnovamento della compagine ecclesiale portato avanti strenuamente dal papa San Gregorio VII, per emendare buona parte del clero dalla piaga della simonia e dal flagello del concubinato, liberando la Chiesa dalle pressioni e dalle ingerenze dell’Imperatore che interveniva pesantemente nella nomina dei vescovi e nelle questioni interne della vita comunitaria. Un progetto non facile da portare a compimento, osteggiato anche all’interno della Chiesa stessa ad opera di molti vescovi e perfino da alcuni cardinali, che dalla situazione vigente traevano potere, prestigio e guadagno.
Noi continuiamo a chiamare ancora oggi questo processo con il termine di “riforma gregoriana” ma per onestà non dobbiamo dimenticare che, se anche Gregorio VII fu quello che più di ogni altro lottò per affermarla, tanto da vedersela nominalmente attribuita, in realtà l’esigenza di purificazione e restaurazione della Chiesa era partita dallo stesso imperatore Enrico III per i territori della sua giurisdizione ed era stata poi rilanciata dal papa San Leone IX, Brunone dei conti di Egisheim – Dagsburg, che l’imperatore stesso aveva proposto come papa per la sua rettitudine e santità, alla morte di Damaso II, nel 1049.
A dire il vero, nella concezione di Gregorio VII, la riforma non doveva essere propriamente una restaurazione, quanto piuttosto una vera ristrutturazione della società. Infatti l’azione del papa mirava a separare nettamente la Chiesa dall’Impero, con la sottomissione di quest’ultimo al potere sacro. Gregorio non voleva certamente una laicizzazione della società come frutto della separazione dei due poteri, quanto piuttosto la sua sacralizzazione, nel senso che ogni aspetto della società doveva essere vissuto sotto la luce della fede cristiana e sotto l’autorità della Chiesa romana. Il suo manifesto programmatico, se così possiamo definirlo, lo troviamo nel Dictatus Papae, un documento papale del 1075, in ventisette articoli, nel quale esprime e canonizza il contenuto della riforma riguardo il primato papale[1]. Questo era il vero obiettivo finale, passando certamente per il contrasto alla simonia, al concubinato del clero e alle ingerenze imperiali nelle investiture ecclesiastiche. La novità del pensiero gregoriano andava inoltre a scardinare una concezione sacrale con la quale, già dai tempi di Costantino, era stata rivestita la figura dell’imperatore e si erano definiti i rapporti tra Impero e Chiesa, e che poi, con l’avvento del sistema carolingio, aveva avuto la sua definitiva legittimazione. Non dimentichiamoci che i grandi concili dei primi secoli furono tutti convocati su iniziativa imperiale e che in seguito, con l’avvento del Sacro Romano Impero, Carlo Magno e i suoi successori legiferarono senza problemi su questioni di organizzazione interna della struttura ecclesiastica o addirittura su materie teologiche e liturgiche. L’apporto imperiale non fu comunque sempre negativo, molte volte invece fu risolutivo di incongruenze più o meno gravi che si vivevano all’interno della comunità cristiana. Che fosse l’imperatore a designare i vescovi in buona parte delle diocesi dell’Impero era ormai una procedura accettata e consolidata, e per molto tempo non aveva destato particolari problemi. Ma questa concessione, alla lunga, aveva dato origine a tutta una serie di interferenze, di malcostume e soprattutto di simonia, cioè di mercato delle sedi episcopali. Spesso gli intenti che regolavano l’accesso alle cariche ecclesiastiche non erano sempre di natura puramente spirituale, ma subentravano anche finalità politiche, materiali, dinastiche e soprattutto economiche. Per questo motivo il papa iniziò ad intervenire direttamente nelle nomine dei vescovi, così come fece anche con l’elezione di Bruno alla sede di Segni. Inoltre la presenza imperiale nella nomina dei vescovi aveva corroso nel tempo il legame delle singole diocesi con Roma e la loro dipendenza giuridica dal papa. Ogni vescovo era signore nella sua diocesi e faceva direttamente riferimento al potere imperiale per molti ambiti del suo ministero. La frammentazione che ne era derivata aveva affievolito e indebolito la comunione ecclesiale e aperto le porte alla simonia, al concubinato e ad altri errori dottrinali.
Quando Gregorio VII viene eletto papa, nel 1073, alla morte di Alessandro II, dopo essere stato per molto tempo consigliere e collaboratore stretto dei suoi precessori già dai tempi di Leone IX, San Bruno era un giovane canonico di circa trent’anni. In quel periodo era quasi terminata la fase inziale della riforma che aveva combattuto la simonia, ma si era appena aperta la fase più accesa, focalizzata sulla lotta alle investiture, ritenute comunemente, anche da San Bruno, la causa nefasta di tutti i mali.
Gregorio VII, come tutti i suoi predecessori, fu molto abile nel portare dalla sua parte il mondo monastico, cui tra l’altro apparteneva. La riforma del monachesimo occidentale, partita soprattutto dall’abbazia di Cluny, si era già ampiamente affermata e i monasteri diventarono punti di irradiazione per una riforma più ampia di tutta la Chiesa. I papi intervennero svincolandoli progressivamente dall’autorità dei vescovi locali, legati quest’ultimi a doppio filo con l’imperatore, e ponendoli sotto la diretta giurisdizione pontificia per tutti gli ambiti della vita monastica, sia quelli spirituali come anche quelli materiali. Questo ci spiega perché, come vedremo nei prossimi articoli, San Bruno, sarà inviato spesso come legato papale a dirimere questioni di natura prettamente giuridica tra monasteri, chiese e abbazie. Altra arma di cui furono muniti i monaci da parte della Chiesa romana fu la facoltà della predicazione in ogni luogo, senza necessità dell’autorizzazione canonica del vescovo locale. Questo permise una rapida diffusione della riforma presso le popolazioni, senza che gli ordinari del luogo potessero opporsi, soprattutto quando si trovavano ad essere attaccati verbalmente dai predicatori perché vivevano in quelle situazioni irregolari che la riforma cercava di estirpare. Quasi a compenso di questa libertà dal potere episcopale, gli ordini monastici contribuirono indiscutibilmente all’affermazione del primato petrino su tutta la Chiesa, sostenendo l’obbedienza romana. La vita monastica inoltre era considerata come un livello superiore di perfezione tanto che fu spesso presentata come il modello ideale della vita cristiana[2]. I papi di quel tempo e i loro collaboratori, e San Bruno tra questi, non fecero eccezione, erano tutti legati alla vita monastica se non come scelta vocazionale, almeno come formazione. Dai monasteri si passerà a promuovere la vita comune del clero, per favorirne la formazione, la moralità e la sobrietà come vedremo tra poco.
Sappiamo tutti che San Bruno è nato a Solero, un piccolo paese, oggi di circa 1600 anime, in provincia di Alessandria, ma, ai suoi tempi, situato nel Ducato di Asti.
Come ci ricorda l’Anonimo segnino, autore della “Vita Sancti Brunonis”[3], redatta in occasione della canonizzazione del 1183, proviene da una modesta famiglia di contadini e da fanciullo fu affidato ai monaci benedettini di San Perpetuo, un monastero aderente alla riforma, dipendente dall’abbazia di Fruttuaria[4], nel Canavese. Nel monastero, Bruno riceverà la prima solida formazione alle discipline classiche e soprattutto vi apprenderà le nozioni per la lettura e lo studio della Bibbia che lo porteranno ad essere uno dei migliori esegeti, se non addirittura il migliore, dell’XI secolo[5]. Continuerà poi i suoi studi a Bologna, in quello che qualche anno dopo sarebbe diventato il prestigioso Studium. Divenuto sacerdote, visse prima tra i canonici della cattedrale di Asti e poi si trasferì tra quelli del duomo di Siena. La sua presenza tra i canonici può sembrare una notizia marginale ma in realtà è di primaria importanza ai fini della sua adesione ai principi della riforma gregoriana. Tutti noi quando sentiamo il termine “canonico”, quasi sempre pensiamo ad un sacerdote ormai anziano, messo a riposo. Ai tempi di San Bruno non era così.
I capitoli delle cattedrali erano composti da un gruppo di sacerdoti “scelti”, i canonici appunto, che affiancavano il vescovo e facevano vita comune sotto la sua guida. Nella riforma gregoriana, la loro esistenza fu incentivata perché rappresentavano un valido presidio contro una eventuale corruzione del clero locale e soprattutto fornivano un modello di vita sacerdotale per gli altri chierici. Pur non essendo monaci, i canonici abitavano insieme nella cattedrale o nell’adiacente episcopio. La loro vita era molto simile a quella che si svolgeva in un monastero. I canonici curavano lo studio biblico, teologico e liturgico, celebravano l’ufficiatura divina comune in cattedrale e costituivano di fatto un organismo di consiglio per il vescovo locale. Avevano obbligatoriamente la mensa comune. San Bruno fu di fatto monaco per formazione e condusse questo stile di vita non solo quando, per un periodo coronò le sue aspirazioni ascetiche a Montecassino, ma praticamente sempre, già dai primi anni della sua carriera ecclesiastica. Come un monaco visse da vescovo di Segni e da legato papale. Incline alla preghiera, allo studio biblico e teologico: la sua vasta e profonda produzione letteraria è frutto di questa sua formazione, di questa “forma mentis”, così come anche l’impegno generoso e saggio nel servizio alla Chiesa. Del suo stile di vita, impregnato di quella che veniva comunemente descritta come la gravitas monastica, offre una descrizione molto bella sempre l’Anonimo: “Nell’incedere e nello stare, nel comportamento e in tutti i suoi movimenti, mai offendeva chicchessia. Tutti gli atti e le parole egli sempre misurava con modesta gravità. Era infatti veritiero nel colloquio, giusto nel giudizio, provvido nel consiglio, sollecito nell’azione, discreto nel comando, onesto nella condotta”[6].
Nelle diocesi del Lazio, e Segni tra queste, l’efficacia dei capitoli canonicali fu assai importante per l’affermazione della riforma gregoriana, grazie anche alla scelta, spesso operata direttamente dal papa, di vescovi provenienti o comunque legati all’ambiente monastico che trovarono in essi un vero sostegno e un punto di forza. Che la qualità dei vescovi del Lazio dovesse essere poi superiore a quella dei vescovi delle altre diocesi è un dato di fatto e questo era dovuto anche alla vicinanza con l’ambiente dei riformatori: spesso i vescovi delle diocesi suburbicarie e limitrofe erano chiamati ad aiutare il papa nel governo della Chiesa universale[7] così come accadrà sovente anche per Bruno.
A quanto racconta l’Anonimo, nell’inverno del 1078, Bruno si trova a Roma, ospite di San Pietro Igneo, cardinale vescovo di Albano. Qui conosce Berengario di Tours con il quale discute, insieme ad altri teologi, sul dogma della transustanziazione eucaristica, negata in più circostanze dallo stesso Berengario. Quando nel febbraio del 1079 si apre il Sinodo Romano presieduto da Gregorio VII per confutare definitivamente gli insegnamenti di Berengario e chiudere un periodo di discussioni che si trascinava ormai da circa venti anni, Bruno è presente in veste di teologo. Partecipa attivamente ed efficacemente alle discussioni e viene notato da Gregorio VII, il quale resta bene impressionato dalla persona e dalla sua scienza teologica e biblica.
Proprio durante l’assise sinodale, la diocesi di Segni era rimasta vacante per la morte del vescovo Erasmo ed era compito di Gregorio ratificare la nomina del nuovo pastore che doveva avvenire con il voto dei canonici. Gregorio VII giocò di anticipo e inviò Bruno a Segni a predicare ai canonici che erano riuniti per procedere all’elezione del nuovo vescovo. Il cardinale Pietro Igneo lo accompagnò. Bruno, come racconta l’Anonimo, spiegò loro i primi versetti del capitolo diciannove del libro dei Numeri, il testo della “giovenca rossa”, illustrando quelle che dovevano essere le caratteristiche e le virtù del vescovo[8] in contrapposizione a quelle che erano invece le mancanze dei sacerdoti veterotestamentari, per guidarli nella scelta del nuovo pastore. Il cardinale Pietro Igneo, che presiedeva alla regolarità dell’elezione, probabilmente suggerì ai canonici il suo nome, rivelandogli che godeva di un preventivo placet papale. Non fu difficile convincerli, considerata l’approvazione unanime che aveva già riscosso la sua predicazione.
Bruno venne eletto vescovo di Segni ma accettò con molto timore, tentò addirittura la fuga per tornare in seguito sui suoi passi. La Diocesi era molto piccola ma antica per fondazione. Era passata indenne alle ristrutturazioni e agli accorpamenti dei decenni precedenti, attuati da Leone IX e Nicola II, perché ritenuta una diocesi pienamente vitale[9]. Questo peso per quanto modesto fosse, era sempre troppo pesante per le sue spalle, almeno questo Bruno pensava di sé, in base a quanto afferma l’Anonimo.
Sarà consacrato vescovo dallo stesso Gregorio VII, a Roma, e anche questo, per l’appena trentenne vescovo eletto, era certamente un segno di grande stima. Non deve stupirci la giovane età di Bruno, perché come ricorda lo storico Glauco Cantarella, «qualunque cosa si pensi e talora si dica delle società antiche, nel Medioevo i giovani, ricchi di energia, di ambizione e di futuro, erano assai valorizzati»[10].
La decisione di Gregorio è facilmente comprensibile: per portare avanti la sua azione riformatrice ha bisogno di persone valide, colte per dottrina, morigerate nei costumi e giovani per resistere alla fatica e alle gravi difficoltà del momento. Il papa aveva bisogno di vescovi e collaboratori, forti e tenaci per contrastare la resistenza, spesso anche violenta (nel caso di Bruno, ad esempio, la carcerazione ad opera del conte Ainulfo di Segni, fedele all’imperatore) che l’opera rinnovatrice incontrava in alcuni settori della Chiesa e della società. Educato fin da piccolo in un ambiente legato alla riforma cluniacense, Bruno aveva sempre vissuto in luoghi “protetti”, lontani dalla corruzione e dalla mondanità. Gregorio era reduce da anni di accesa lotta con l’imperatore Enrico IV e periodi ancora più tristi stavano per iniziare. Bruno offriva tutte le garanzie per una valida collaborazione e incarnava quell’immagine nuova di vescovo che il papa proponeva alla Chiesa. Bruno saprà ripagare ampiamente la fiducia di Gregorio, lasciandosi guidare dai suoi insegnamenti e soprattutto attuandoli con coraggio, e all’occorrenza anche con testardaggine, nel corso di tutta la sua vita.
Inoltre Segni era una diocesi che non richiedeva una presenza costante da parte del vescovo ed essendo anche vicina a Roma, gli permetteva di essere affianco a Gregorio per aiutarlo ogni qual volta ce ne fosse stato bisogno, sia presso la curia, sia come legato papale per le varie missioni apostoliche che gli sarebbero state affidate. Probabilmente la piccola diocesi non era particolarmente problematica e godeva della presenza di un clero ormai sano, non intaccato dal virus della corruzione, un clero in cui i criteri riformatori erano già radicati, per questo motivo Bruno poteva allontanarsi anche per lunghi periodi senza che la sua assenza creasse eccessivo disagio Infatti dal 1079 al 1085, anno della morte di Gregorio VII, Bruno sarà spesso a Roma per collaborare con il papa, così come racconta egli stesso nella sua Vita Leonis Papae IX[11], fornendo una serie di dettagli e particolari. Da questa opera possiamo comprendere come Bruno fosse ben inserito nella corte pontificia e quanto fosse alto il livello della sua collaborazione con Gregorio VII. Una vicinanza molto concreta, tanto che il giovane vescovo di Segni si riprometteva di trovar tempo per scrivere una vita dell’amato pontefice, perché se ne conservasse memoria in futuro, anche su aspetti poco noti ai più.
Con la morte di Gregorio di cui parleremo prossimamente, il processo di riforma non si interruppe grazie anche alla tenacia di uomini come Bruno che avevano sposato la causa per una nuova impostazione della società, dove la Chiesa, finalmente libera, non era più ancella del potere civile ma ambiva ad esserne guida e maestra. Bruno, tra l’altro, apparteneva alla frangia più intransigente, meno incline alla mediazione. Egli ne è anche consapevole di questo suo atteggiamento, ma non lo cambierà mai, anche a costo di pesanti e sofferte rinunce, perché in questo modo sentiva di aderire pienamente e senza compromessi, alla verità che Cristo aveva consegnato alla Chiesa, sua sposa.
Segni, agosto 2021
[1] Dictatus Papae, PL 148, c.408.
[2] G. Miccoli, Chiesa Gregoriana, p. 5.
[3] Il testo di cui disponiamo oggi è una copia, eseguita “parola per parola”, al tempo del vescovo segnino Bernardino Callini nell’anno 1541, da un manoscritto antico custodito nell’archivio della cattedrale di Segni e andato distrutto nell’incendio del 1557.
[4] L’abbazia di Frutturaia fu fondata nel 1003 da Guglielmo da Volpiano, figura di primo piano della Riforma cluniacense. Ospitò la comunità monastica fino al 1848, anno in cui i monaci la abbandonarono.
[5] D. Vitali, San Bruno Astense, vescovo di Segni, abate di Montecassino in “Ecclesia in cammino”, 7/8 (2018).
[6] Anonimo, Vita Sancti Brunonis, c. 480d.. Trad. it a cura di B. Navarra, San Bruno Astense, p. 251.
[7] P. Toubert, Feudalesimo mediterraneo, p. 276.
[8] B. Navarra, San Bruno Astense, p. 23.
[9] P. Toubert, Feudalesimo mediterraneo, p. 275.
[10] G. M. Cantarella, Pasquale II, p. 16.
[11] Vita Leonis Papae IX, PL 165, cc. 1109 – 1122.