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Bruno, testimone della riforma gregoriana

di Paolo Pizzuti

Gregorio VII morì a Salerno, in esilio, il 24 maggio 1085. La situazione della Chiesa alla sua morte era molto complessa e si aprì quella che viene denominata la “crisi romana”.

Clemente III era tornato a Roma approfittando della fuga del papa, mentre l’imperatore sperava e tramava perché questi fosse riconosciuto da tutti come legittimo pontefice senza procedere ad una nuova elezione canonica, pur sapendo che avrebbe dovuto affrontare le ire della potente Matilde di Canossa che con le sue terre e le sue truppe era una forte sostenitrice del papato romano e un baluardo a sua difesa. Molti vescovi, tra quelli che a seconda delle circostanze cambiavano schieramento, si auspicavano che il nuovo papa trovasse un accordo con l’imperatore e fosse meno intransigente per creare un clima più disteso per tutti, altri invece, e non erano neanche così pochi e deboli, e che nella riforma avevano convintamente creduto come Bruno, temevano che il cammino iniziato fosse accantonato o tradito. Infine tra i vescovi non scismatici che si riconoscevano nell’obbedienza romana e quindi attendevano il legittimo successore di papa Gregorio esistevano di fatto due fazioni, quella rigidamente gregoriana e quella filo imperiale, sempre fedele al papa quest’ultima, ma più benevola nei confronti di Enrico IV e che aveva sopportato con qualche sofferenza il rigore gregoriano, giudicandolo spesso eccessivo.

C’era poi l’incognita normanna. I normanni, rappacificati con il papa dopo le incomprensioni avute al tempo di Leone IX, ambivano a farsi paladini della Chiesa romana per ritagliarsi un ruolo nell’Italia meridionale, in contrapposizione all’imperatore. Se questa protezione poteva anche interessare la Chiesa perché costruiva un argine agli straripamenti delle ingerenze imperiali, nel tempo rischiava di diventare una prigione ben più pericolosa. In particolare i Normanni spingevano perché fosse eletto papa l’abate cassinese Desiderio che di questo riappacificamento era stato il regista e l’artefice.

Le trattative per la scelta del successore di Gregorio furono molto complesse. I cardinali si barcamenavano tra i tre candidati suggeriti da Gregorio in punto di morte e le altre figure che venivano proposte dalle varie fazioni. Il 24 maggio del 1086, nel corso di un'assemblea particolarmente burrascosa, venne eletto papa l’abate Desiderio di Montecassino, che prese il nome di Vittore III. Tra elezione e accettazione, vero momento in cui si entra nel pieno possesso dell’autorità pontificia, passarono circa dieci mesi. L’eletto infatti non accolse subito la decisione dei cardinali, si allontanò da Roma per rifugiarsi ad Ardea e dopo poco tornò a Montecassino, in seguito, per via delle forti pressioni di alcuni cardinali e soprattutto dei normanni, accettò e venne incoronato papa nell’aprile dell’anno seguente. Il suo pontificato fu di pochi mesi perché morirà il 16 settembre del 1087. Desiderio era uomo colto e capace, amante della vita monastica e per Montecassino era stato una vera benedizione perché diede inizio ad una prosperosa rinascita dell’abbazia, ma sapeva anche che la Chiesa ereditata da Gregorio si trovava in uno stato drammatico e per governarla richiedeva una intelligenza, una conoscenza della situazione ed una fortezza fuori del comune, per questo, accettando suo malgrado, volle come primo collaboratore proprio Bruno di Segni, nominandolo Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.

Questa nomina era segno della stima che il vescovo di Segni riscuoteva ma costituiva anche un modo per avere tra i suoi collaboratori un uomo di spicco del partito gregoriano, per garantire una continuità con il pontificato precedente e l’azione riformatrice intrapresa, ma anche per fugare ogni ombra di dubbio sulla sua lealtà verso la riforma di Gregorio e mettere così a tacere i gregoriani più intransigenti che ancora gli rimproveravano i tentativi di pacificazione con lo scomunicato Enrico IV.

Un ufficio molto importante quello che Bruno riveste, perché all’epoca il bibliotecario era anche il cancelliere e svolgeva molte di quelle mansioni che nell’ordinamento attuale sono attribuite ad un Segretario di Stato. Inoltre il bibliotecario era il custode di tutto il magistero della Chiesa perché aveva accesso ai documenti dell’archivio pontificio con le disposizioni dei papi e i loro insegnamenti e per questo consigliava il pontefice in ogni singola decisione perché il suo operato fosse sempre conforme e in linea con l’insegnamento dei predecessori. Per poter accedere a questo incarico san Bruno deve aver dato prova di possedere una vasta cultura teologica, di essere padrone della lingua latina e di conoscere con profondità la storia e le leggi della Chiesa. In questa veste, il vescovo di Segni apporrà la sua firma a diversi documenti papali.

Inoltre la sua presenza al fianco di Vittore fu provvidenziale per la sopravvivenza della riforma stessa, perché, consapevoli della debolezza politica del nuovo papa, a causa anche di un periodo particolarmente attivo di Clemente III che occupava Roma in quei mesi, gli imperiali avevano cercato in modo subdolo un riavvicinamento con la parte morbida del partito gregoriano allo scopo di trovare un compromesso e, nello stesso tempo, volevano provocare un inasprimento dei gregoriani intransigenti per spaccare il fronte comune dei riformisti e far trionfare Enrico IV e lo stesso Clemente[1].

Secondo molti e valenti studiosi la nomina a bibliotecario comportò per Bruno la porpora cardinalizia. Lo storico della Chiesa Salvador Mirandas, afferma infatti che venne creato cardinale nel 1086 da papa Vittore III e fu l’unico del suo brevissimo pontificato[2].

Anche se la tradizione segnina con l’Anonimo non hai mai riconosciuto il suo cardinalato, forse per rivendicarne una esclusiva appartenenza, in realtà ci sono alcuni indizi che potrebbero avvalorare la tesi. Bruno partecipa al conclave per eleggere il successore di Desiderio e il suo nome compare tra i cardinali delle chiese suburbicarie, cioè tra quelli che avevano il compito di proporre dei nominativi che poi gli altri cardinali avrebbero votato come decretava la bolla di Nicola II del 1059. Bruno, che conosceva bene la legislazione canonica, non avrebbe mai commesso una azione illegale, soprattutto nella sua particolare posizione di bibliotecario, esprimendo un voto che non gli era consentito se fosse stato un semplice vescovo. C’è poi l’affermazione di Pasquale II che, davanti ai monaci di Montecassino riuniti in capitolo, vede in Bruno un possibile e degno candidato alla Sede di Pietro: per essere elegibile Bruno avrebbe dovuto essere un cardinale, come lo erano stati molti abati in quel periodo. Sono semplici indizi, plausibili, ma comunque una eventuale porpora non aggiungerebbe nulla a quello che è già lo spessore inconfutabile di San Bruno.

Dopo la morte inaspettata di Vittore III, il 12 marzo 1088 viene eletto papa Oddone de Châtillon che assume il nome di Urbano II. Oddone, priore di Cluny, fu insieme a Bruno, uno stretto collaboratore di Gregorio VII.

Dopo essere stato nominato cardinale vescovo di Ostia e Velletri fu inviato come legato in Germania dove, entrando in contrasto con l’imperatore, difese con fermezza la riforma gregoriana. Il suo pontificato non fu meno sofferto di quello dei suoi predecessori. Urbano II, almeno nei primi anni, cercò di attuare una politica più conciliante senza rinnegare tuttavia i principi della riforma. Era necessario pacificare la Chiesa e guadagnare terreno rispetto a Clemente III. Per questo mitigò sapientemente la legislazione gregoriana, favorì il rientro di quanti avevano aderito allo scisma imperiale e si conquistò la simpatia dei principi italiani e dell’alto clero[3].

Eletto papa a Terracina, a quei tempi proprietà dell’abbazia di Montecassino e quindi sicura da ogni interferenza politica e militare dell’imperatore e dei normanni, durante un conclave che dai suoi detrattori fu definito una “assemblea privata”[4], con una mossa a sorpresa nel 1089, costrinse l’antipapa Clemente III a fuggire da Roma, per poter prendere possesso della cattedra lateranense ed entrare poi in San Pietro.

Urbano era persona capace, teologicamente dotta e giuridicamente preparata. Aveva avuto una formazione completa ed era consumato negli affari ecclesiastici. Integro nei costumi, aveva conservato anche da cardinale una sobria vita monastica, guadagnandosi la stima e il rispetto di tutti[5].

Scrivendo all’abate di Cluny e agli altri vescovi per comunicare la sua elezione al soglio pontificio, Urbano II nomina tra i cardinali elettori anche Bruno di Segni.

Anche Urbano II, come prima Gregorio e Vittore, negli undici anni del suo pontificato troverà in Bruno un fidato collaboratore e un saggio consigliere. La loro amicizia era iniziata già dai tempi di Gregorio VII. Entrambi nominati vescovi per espresso desiderio del papa, erano stati spesso incaricati di missioni delicate e importanti. Condividevano i principi della riforma gregoriana e provenivano tutti e due dall’ambiente monastico cluniacense. Gli anni del pontificato di Urbano sono per Bruno un periodo in cui si assenterà frequentemente da Segni per accompagnare il papa nei viaggi apostolici e nelle missioni diplomatiche in Italia e in Francia. La firma di Bruno la troviamo in molti documenti pontifici e bolle papali anche se non sembra essere più bibliotecario. Spesso è citato negli atti come consigliere del papa insieme ad altri cardinali. In tali circostanze a nome del papa consacra chiese e altari, dirime contenziosi, compone liti tra signori locali, partecipa a concili e sinodi o addirittura li presiede come vicario apostolico o legato pontificio. Presentandosi e firmando sempre con il titolo di “vescovo di Segni” Bruno ha fatto risuonare e conoscere il nome della sua sede episcopale in tutti gli ambienti più importanti di quel periodo storico.

Nel marzo del 1095 Bruno prende parte, sempre al seguito del papa, al concilio di Piacenza in cui si ribadirono tutti i provvedimenti della riforma gregoriana. Questa imponente assemblea conciliare, che vide la partecipazione di circa quattromila ecclesiastici giunti da ogni parte della Chiesa[6], segnò una svolta nella politica ecclesiastica di Urbano che da questo momento, avendo notato un generale rilassamento indotto anche dal suo atteggiamento conciliante, cominciò ad essere più severo nell’applicazione dei principi della riforma[7].

L’apporto di Bruno al concilio di Piacenza fu determinante in quanto le soluzioni approvate in concilio, dopo vari interventi e animati dibattiti, erano quelle elaborate nella Vita Leonis IX papae, opera letteraria di Bruno conosciuta nella sua interezza anche, e forse soprattutto, come Libellus de Symoniacis. Per verificare la validità delle ordinazioni conferite dai vescovi simoniaci di cui si discuteva in concilio, Bruno sposta l’attenzione dal ministro ordinante, simoniaco appunto, al soggetto ricevente non necessariamente simoniaco. Elaborerà quindi la teoria dell’intenzionalità etica nel soggetto che riceve l’ordinazione, presbiterale o episcopale che sia. Con questa nuova prospettiva Bruno ispira anche Pietro Lombardo che elaborerà in seguito la teoria dell’intenzionalità come essenza dell’agire morale[8].

Nello stesso anno partecipa anche al concilio di Clermont. Questo sinodo di natura locale, presieduto da Urbano II, a cui presero parte circa trecento vescovi e conosciuto più perché diede l’avvio alla prima crociata, in realtà ribadì alcuni assunti della riforma gregoriana portandoli a compimento. Infatti nei suoi canoni viene proibita l’ordinazione episcopale per i laici, il cumulo dei benefici ecclesiastici, l’imprigionamento dei vescovi, esperienza quest’ultima vissuta anche da Bruno. Si ribadisce inoltre l’obbligo del celibato e si condanna di nuovo la simonia. Sempre al seguito del papa, Bruno partecipa anche ai concili di Limoges e di Tours per la soluzione di problemi locali, apponendo la sua firma nei documenti. Quello che ci appare in questo periodo è un Bruno pienamente inserito nella vita della Chiesa e partecipe a tutte le decisioni di primaria importanza. Egli mette a servizio del papa la sua vasta competenza giuridica ma non dimentica di essere anche un esegeta e un teologo, infatti, nonostante gli impegni, porta avanti anche la sua vasta produzione letteraria.

Urbano II muore a Roma il 29 luglio del 1099, fino a quella data Bruno fu sempre al fianco del papa.

Segni, agosto 2021

 

[1]  A. Fliche, Storia della Chiesa, p. 234.

[2]  http://webdept.fiu.edu/~mirandas/cardinals.htm. (30/05/2019).

[3]  A. Fliche, Storia della Chiesa, p. 330.

[4] Liber de unitate ecclesiae conservanda, in MGH LL II, pp. 173 - 284. L’anonimo autore di questo libro, composto intorno al 1092 e che venne ritrovato nella biblioteca di Fulda nel 1519, così si esprime a riguardo dell’elezione di Urbano II per screditarlo davanti all’imperatore.

[5]  A. Fliche, Storia della Chiesa, p. 280.

[6]  Ibidem, p. 365.

[7]  Ibidem, p. 367.

[8]  Sententiarum Libri Quattuor, PL 192, cc. 749 – 751. Pietro Lombardo è stato uno dei grandi teologi del XII secolo. Nato in provincia di Novara nel 1100, su presentazione di Bernardo di Chiaravalle divenne alunno a Bologna e in seguito a Parigi dove ebbe come maestro Pietro Abelardo. Divenne prima Maestro di teologia presso la scuola della cattedrale di Parigi e poi vescovo della medesima città. Se poco si cimentò nel commento alla Scrittura, infatti ci restano solo i commentari al Corpus Paulinum e al libro del Salmi, fu nell’approfondimento teologico che lasciò il segno più evidente, divenendo un sicuro riferimento fino al XVI secolo. Scrisse infatti il Sententiarum Libri Quattuor, una raccolta dettagliata di testi biblici, di sentenze patristiche e documenti ecclesiastici, organizzati in modo sistematico e tematico. Dal suo metodo trasse ispirazione tutta la teologia mediovale che nelle sentenze trovò una fonte di ispirazione per la didattica delle università teologiche del tempo. Per quanto riguarda la valutazione della simonia e la teoria dell’intenzionalità cosi come Bruno l’aveva proposta, Pietro riprende e ed essenzialmente condivide le sue opinioni, dandogli una ulteriore sistematizzazione.

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