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Bruno e Pasquale II, le incomprensioni, la lite e il rientro a Segni

di Paolo Pizzuti

Alla morte di Urbano II, con un rapidissimo conclave venne eletto papa il cardinale Raniero di Bleda, che prese il nome di Pasquale II. Giunto a Roma appena ventenne per trattare presso la curia alcune questioni del suo monastero, fu nominato poco dopo da Gregorio VII abate di San Lorenzo fuori le mura.

Nel 1078 divenne cardinale col titolo presbiterale di San Clemente, la stessa basilica in cui sarà eletto. Per conto di Gregorio riportò all’obbedienza romana Velletri che si era schierata con Clemente III e svolse importanti missioni in Spagna per sedare le controversie riguardo la giurisdizione del potente arcivescovato di Compostela. Il cardinale Raniero di Bleda, scelse il nome di Pasquale per collegare il suo pontificato a quello di Pasquale I che aveva lottato per la libertà della Chiesa ma che era anche riuscito a trovare una pacificazione con l’Impero. Pasquale, come il predecessore da cui traeva nome, voleva essere l’uomo dell’accordo[1]. Le premesse apparivano buone e il partito gregoriano, a cui Bruno apparteneva, pensava di aver trovato nel nuovo pontefice un continuatore della riforma ma anche un uomo capace di dialogare e cercare una mediazione per attenuare la dura lotta e vincere la battaglia.

Insieme a Bruno votò nel conclave di Terracina per l’elezione del papa Urbano II. Anche se Pasquale era più giovane di qualche anno rispetto al vescovo di Segni, cominciarono a salire i rispettivi gradi della gerarchia ecclesiastica quasi contemporaneamente su scelta di Gregorio VII che vedeva in loro dei validi collaboratori. Pasquale all’iniziò mostrò una grande considerazione per Bruno, servendosi assiduamente della sua collaborazione e dei suoi pareri.

Il primo nemico da sconfiggere dopo l’elezione, fu proprio Clemente III, che fuggito da Roma dieci anni prima sotto Urbano II, si era rifugiato a Ravenna, ove in precedenza era stato vescovo. Approfittando della morte di Urbano, Clemente III si era mosso per tornare a Roma, sperando di giungervi prima dell’elezione del nuovo papa ma la rapidità con la quale si svolsero gli eventi non glielo consentì, la sua era quindi una minaccia più che reale. Pasquale II, con l’aiuto dei Normanni, riuscì a fermarlo nei pressi di Albano. Clemente, sconfitto, ripiegò a Civita Castellana e poco dopo morì nel settembre del 1100.

Tutto sembrava volgere al meglio perché le difficoltà con i sovrani di Francia, Spagna e Inghilterra, avevano imboccato la via della soluzione, restava da sciogliere solo il nodo con l’imperatore, ma eliminato Clemente III e i suoi deboli successori, il problema sembrava meno difficile.

Nonostante la pace apparente inizia il periodo più impegnativo della vita di Bruno e anche il più tormentato. Paradossalmente, Pasquale è il papa con cui Bruno aveva più familiarità e con cui aveva condiviso più esperienze di vita, già da prima della sua elezione al pontificato romano, ma è anche il papa che lo farà soffrire di più, punendolo alla fine, con la privazione di quella che era la sua aspirazione più profonda, la vita monastica[2].

All’inizio del pontificato Bruno comunque continua la sua presenza nella curia romana e Pasquale gli manifesta sempre una grande stima e considerazione. Accompagna il papa nei suoi viaggi e mette a disposizione la sua vasta conoscenza giuridica[3]. Al seguito di Pasquale II si reca a Salerno per comporre una lite tra l’abate di San Lorenzo e il vescovo di Caiazzo. Nel 1100 è di nuovo a Salerno, sempre col papa, per dirimere dei contenziosi tra abati e vescovi locali. La sua firma continua ad essere apposta ai vari documenti papali, insieme a quelle dei cardinali delle diocesi suburbicarie[4]. Da Salerno si sposta a Melfi dove funge da avvocato nel procedimento tra la badessa di S. Maria di Capua e l’abbazia di Montecassino. Di ritorno a Roma si ferma poi a Montecassino con Pasquale II e anche lì svolge officio di mediazione per la risoluzione di alcuni contenziosi economici. L’operato di Bruno è talmente considerato che in una delle visite a Montecassino, Pasquale II dirà ai monaci riuniti in capitolo che è degno succedergli sul trono di Pietro[5].

Quello che sembra essere un sentire comune tra Pasquale e Bruno, entra però in crisi quando Pasquale si relaziona con l’imperatore. Infatti, il comportamento di Pasquale è alquanto ambiguo e forse spregiudicato. Pasquale è consapevole che in questo momento è lui a detenere l’esercizio del primato romano al punto tale che pensa non solo di essere superiore ad ogni potere civile[6], e questo sarebbe in linea coi principi del Dictatus Papae di gregoriana memoria, ma anche di essere superiore a tutti i suoi predecessori, tanto da modificarne e accomodarne le decisioni[7] a suo piacimento. E forse questo atteggiamento spavaldo, sicuramente non condiviso da Bruno, avrà deteriorato progressivamente la fiducia del vescovo di Segni nei confronti del papa. I principi a cui ufficialmente si ispirava Pasquale erano certamente quelli espressi da Gregorio VII ma nella realtà, egli si mostrò duttile e pratico, capace di scendere a sottili compromessi, usando formulazioni e interpretazioni volutamente ambigue delle stesse norme canoniche. Pasquale, attraverso la sua cancelleria, era un abile estensore di testi che affermavano tutto e il contrario di tutto, creando soluzioni temporanee che non risolvevano definitamente il problema ma davano origine ad un dignitoso temporeggiare. Egli aveva sempre fatto così, già da quando svolgeva missioni per conto dei suoi predecessori. Bruno invece voleva servire un papa che fosse in continuità con il magistero della Chiesa non un pontefice che non si faceva scrupolo di superare, modificare e perfino annullare le sofferte decisioni dei suoi predecessori.

L’ultimo viaggio di Bruno al seguito del papa è nell’estate del 1102. Tornando a Segni prende una decisione tanto meditata e tanto attesa: entra a Montecassino come monaco. I tempi erano ormai maturi, la sua presenza nella curia romana non gli sembrava più necessaria e la situazione generale pensava fosse ormai pacificata. Scrive al papa per comunicargli il suo ingresso in monastero:

“Tutti coloro che si trovano nella chiesa romana sanno senza dubbio che, se la pazzia degli scismatici non avesse incrudelito contro la chiesa, già da molti anni avrei fatto ciò che ora ho compiuto. Ma ora che la Chiesa di Cristo, Dio nostro, diffusa per l’orbe, si rallegra con la Chiesa romana, che regge le chiavi di Pietro, perché tacciono i turbini dei venti e i mari riposino calmi, mi sia permesso mantenere ciò che ho promesso per voto”[8].

L’Anonimo racconta di una malattia contratta mentre accompagna Pasquale II in Puglia. Bruno coglie l’occasione per chiedere al papa il permesso di ritirarsi a Montecassino, rinunciando a tutti gli uffici in curia e anche alla diocesi di Segni. Pasquale con dispiacere acconsente all’ingresso in monastero imponendogli però, come condizione sine qua non di prestare servizio per quaranta giorni all’anno in curia e non potrà inoltre rinunciare alla diocesi di Segni di cui resterà comunque vescovo. Forse Pasquale pensava che l’ingresso a Montecassino fosse l’infatuazione di un momento dovuta alla stanchezza e alla malattia e che magari da lì a poco Bruno avrebbe sentito la nostalgia della vita attiva, quindi ritenne saggio fargli conservare tutti gli incarichi precedenti.

Nel novembre del 1102 Bruno varca la soglia di Montecassino chiedendo di essere accolto come monaco. La pace tanto cercata e finalmente trovata dura poco, la sua presenza in monastero è fortemente condizionata dai servizi che il papa gli impone. Non sembra che Pasquale si sia rassegnato a perderlo perché continua ad impegnarlo con gli stessi ritmi di prima, infatti nel dicembre dello stesso anno, dopo appena un mese che era arrivato tra i benedettini, accompagnerà Pasquale al sinodo di Benevento, poi nel 1104 andrà in Francia come legato pontificio. Nel 1105, come consuetudine ormai, Bruno si assenterà più dei quaranta giorni concordati. Infatti a gennaio sarà lui a stipulare un accordo tra Roberto di Caiazzo e l’abate di Montecassino Oderisio per la cessione del paese di Pontecorvo e delle sue pertinenze all’abbazia. Nel marzo dello stesso anno è a Roma per partecipare al sinodo lateranense dove funge da giudice. Ad agosto torna nella sua diocesi di Segni dove apprende della morte dell’amico Pietro, vescovo di Anagni. Ne cura le esequie e la sepoltura e più tardi ne scriverà la vita che servirà come testimonianza per la canonizzazione. A settembre dello stesso anno è a Civita Castellana con Pasquale II. Sempre nel 1105, il papa lo invia al fianco di Boemondo d’Altavilla in Francia, come legato, per convincere la corte e i vescovi a sostenerlo nella nuova spedizione che stava per intraprendere in terra santa. In veste di rappresentante papale assisterà alle nozze tra Boemondo e Costanza di Francia. Nel 1106 Bruno è ancora in Francia dove convoca e presiede alcuni sinodi locali come vicario della sede romana. Si trattiene in Francia fino al novembre del 1106, poi scende in Italia e raggiunge Pasquale II a Parma. Probabilmente da Parma torna finalmente a Montecassino, ma per poco. Nel 1107 accompagna l’abate di Montecassino a Capua dove consacra la chiesa di San Nicola, e nell’estate dello stesso anno è inviato in Sicilia come legato papale.

Il 1° ottobre del 1107, mentre Bruno è in missione, muore l’abate di Montecassino. Egli torna nell’abbazia quarantaquattro giorni dopo la sua sepoltura e viene chiamato a succedergli come abate sul finire del mese di novembre. Pasquale, confermandone la nomina abbaziale e derogando la norma che vietava il cumulo dei benefici, deve accettare ormai la situazione e privarsi del suo esperto collaboratore. Inizia per Bruno un periodo intenso di studio e di preghiera. Ha tempo per scrivere e per dedicarsi alla cura del monastero che negli anni del suo governo prospererà spiritualmente ma anche materialmente, accrescendo il suo già smisurato patrimonio[9].

La pace dura poco anche perché la situazione della Chiesa sta per precipitare e a Montecassino ne arrivano gli echi.

Il secondogenito dell’imperatore Enrico IV sul finire del 1104 si era ribellato al padre e aveva cercato di spodestarlo assumendo la guida dell’Impero. In questo tentativo, il figlio ribelle cercò l’appoggio di Pasquale che da sempre era in aperto contrasto con il padre Enrico IV. L’aspirante imperatore rabbonì il papa facendogli intendere di voler rinunciare alle investiture delle cariche ecclesiastiche. Il papa, forse ingenuamente, lo appoggiò sciogliendolo dal giuramento di fedeltà prestato al padre[10] aprendo così la strada all’assunzione del potere imperiale da parte del giovane sovrano. Nel 1111, quando già da tre anni Bruno era stato eletto abate di Montecassino, il giovane Enrico col sostegno ottenuto a Ratisbona dai grandi del regno germanico, scese in Italia in direzione di Roma, alla testa di trentamila uomini, per ricevere la corona imperiale direttamente da Pasquale. Ai primi di febbraio del 1111, giunse al castello di Sutri, alle porte dei domini papali e si accampò. Venne inviata a Roma una delegazione di alto profilo guidata dal cancelliere imperiale, l’arcivescovo Adalberto di Saarbrücken, e composta da alcuni nobili tedeschi. Si giunse ad un primo sorprendente accordo. Enrico rinunciava a conferire le investiture e lasciava libere tutte le chiese che erano di pertinenza papale. Prometteva inoltre di non attentare più alla vita del pontefice romano e si impegnava a difendere la Chiesa e i suoi patrimoni. Il papa come contropartita offriva all’imperatore la rinuncia a tutti i beni ecclesiastici che erano derivati dalle investiture e proibiva ai chierici, vescovi compresi, ogni cura materiale che li distogliesse dalla vita spirituale ed ecclesiale: una scelta che venne poi bollata da tanti vescovi come puro “pauperismo”. Il 9 febbraio Enrico sottoscrisse l’accordo e il 12, tre giorni dopo, entrò in una Roma parata a festa mentre Pasquale lo attendeva sul sagrato dell’antica basilica di S. Pietro con la sua corte. Quando prima di procedere con l’incoronazione vennero letti i contenuti dell’accordo, in basilica si alzarono forti voci di protesta e si ebbero violente reazioni da parte degli ecclesiastici presenti, soprattutto tra quelli che avevano ottenuto il loro vescovato dall’investitura imperiale. L’offerta che Pasquale presentava ad Enrico fu ritenuta una autentica follia perché, a detta loro, li avrebbe resi deboli davanti alle mire del potere politico, spogliandoli di un’autorità civile che garantiva rispetto e libertà d’azione. Inoltre Pasquale fu accusato di fare il povero a spese altrui perché avrebbe salvaguardato l’integrità del patrimonio della Chiesa romana a danno delle proprietà delle singole diocesi[11]. Il rito di incoronazione fu interrotto appena terminata la lettura del patto ed Enrico si ritirò con i prelati del suo seguito per decidere il da farsi. Nel frattempo il papa fu tenuto in ostaggio da un manipolo di soldati e Pasquale riuscì a mala pena a terminare la Messa. Dopo tre giorni di aspra guerriglia con il popolo romano che voleva comunque liberare il papa, Enrico scappò da Roma, conducendo con sé il pontefice e quindici cardinali. Pasquale fu rinchiuso nel castello di Trevi. La sua prigionia durò sessantuno giorni, poi il papa, sotto minaccia, l’11 aprile fu costretto a siglare un accordo a Ponte Mammolo col quale di fatto ripristinava la situazione anteriore a Gregorio VII, azzerando completamente tutti gli sforzi e i progressi che la Chiesa aveva raggiunto fino a quel momento nella lotta per le investiture con la riforma gregoriana.

Rompendo il suo silenzio rientrò in gioco anche Bruno che sarà uno degli attori principali di questa nuova fase. Il «praevilegium» estorto a Pasquale con la violenza fu subito etichettato come un «pravilegium» da parte del partito gregoriano e Bruno stesso lo definì come tale. L’abate di Montecassino non si fece attendere e prese iniziativa per convincere il papa a rescindere l’accordo. Scrive un libello di cui purtroppo non abbiamo più copia per chiarire i termini teologici e canonici dell’episodio e lo invia a molti prelati suoi amici.

Scrive direttamente al Papa[12] rinnovandogli la sua fedeltà ma anche invitandolo con parole accorate a tornare suoi sui passi e ritirare le concessioni che gli erano state estorte. Molti vescovi, riconoscendo in lui il depositario delle istanze del partito gregoriano, gli inviano lettere per avere consiglio e lume sul da farsi e su come considerare l’operato del papa che in qualche modo aveva tradito gli insegnamenti del magistero della Chiesa. Si conservano ancora le lettere che, in poco tempo, Bruno indirizza a Pietro vescovo di Porto, ai cardinali e ai vescovi e infine al preposito di San Giorgio[13] il quale lo aveva interpellato anche per conto dei vescovi di Lucca e Parma e dei ministri dei vallombrosani e dei camaldolesi, due rami quest’ultimi della grande famiglia benedettina. Dai destinatari delle lettere, e dal testo delle stesse, si può intuire quanto fosse ricercata la sua opinione, non solo all’interno del mondo monastico, ma anche all’esterno, per giungere fino a Matilde di Canossa[14] attraverso il vescovo di Parma, suo suddito.

Una attività intensa e incisiva che inquieta i sonni di Pasquale: «Se non mi sbrigherò a togliergli l’abbazia, succederà che con i suoi argomenti mi toglierà il pontificato romano»[15].

Ai primi di ottobre del 1111 il papa invia a Montecassino il cardinale Leone di Ostia con la lettera con cui viene intimato a Bruno di lasciare l’abbazia e di tornare a Segni. Le disposizioni contengono anche una grave minaccia che avrebbe distrutto la potenza di Montecassino qualora non ci fosse stata pronta e incondizionata obbedienza. Pasquale avrebbe nominato di persona un abate per ogni abbazia dipendente dall’arcicenobio benedettino cassinese. In pratica ogni monastero, con i suoi possedimenti e le sue rendite, sarebbe diventato autonomo e immediatamente soggetto alla Sede Apostolica e così la famiglia Cassinense, il primo e più importante ramo dell’ordine benedettino, sarebbe stata totalmente disgregata e Montecassino sarebbe diventata una abbazia tra le tante, priva di mezzi e potere. Bruno obbedisce prontamente, anche se tra i monaci scoppiano tafferugli e cercano di opporsi sia alla decisione del papa, sia al candidato alla successione che lo stesso Bruno aveva proposto.

Il 13 ottobre lasciò l’abbazia e fece ritorno a Segni dove venne accolto da una popolazione festante che lo accompagnò fino in cattedrale. Il suo impegno per la riforma gregoriana, soprattutto in questo momento molto difficile, non sarebbe terminato. Bisognava ricostruire tutto quello per il quale aveva lottato insieme a tanti altri. Continuerà la sua lotta da Segni, fin quando non sarebbe giunta la vittoria.

Segni, 18 agosto 2021

 

[1]  G. M. Cantarella, Pasquale II, p. 27.

[2]  Ibidem, p. 123.

[3]  R. Grégoire, Bruno de Segni, p. 43.

[4]  Ibidem, p. 42.

[5]  B. Navarra, San Bruno Astense, p.42.

[6]  G. M. Cantarella, Pasquale II, p. 34.

[7]  Ibidem, p. 24.

[8] Chronica monasterii Casinensis, IV, 42, 90. Trad. it. a cura di B. Navarra, San Bruno Astense, p. 117.

 

[9]  B. Navarra, San Bruno Astense, p. 41.

[10]  F. Gregorovius, Storia di Roma nel medioevo, p. 12.

[11]  F. Gregorovius, Storia di Roma, p. 17.

[12]  Epistula ad Paschalem Summum Pontificem, PL 163, cc. 463a – 464a.

[13]  Epistula ad B. Praepositum et cunctos Fratres S. Georgii, PL 165, cc. 1139 – 1142.

[14]  G. M. Cantarella, Pasquale II, p. 124.

[15]  Vita S. Bruni seu Brunonis, PL 164, c 95. Trad. it. a cura di B. Navarra, San Bruno Astense, p. 133.

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