Questa sezione contiene articoli e scritti di vari autori che aiutano ad approfondire il pensiero, la vita e gli insegnamenti di San Bruno. La proprietà letteraria degli articoli è degli autori e non è consentita la riproduzione, anche parziale, dei testi senza loro esplicita autorizzazione.

Aspetti dogmatici negli scritti di Bruno di Segni

di Dario Vitali

             Non è nello spazio di una comunicazione che si possano trattare tutti gli aspetti dogmatici di un’opera vasta e complessa come quella di Bruno di Segni. Il rischio sarebbe quello di fare poco più di un indice delle sue opere. Basta scorrere il capitolo dell’Introduzione al primo volume degli scritti, per vedere la vastità dei riferimenti teologici nel pensiero di Bruno di Segni[1].

E’ quindi necessario circoscrivere l’ambito della ricerca, che limiterò all’Ecclesiologia.

La scelta, oltre che da ovvie ragioni di competenza personale, è dettata dall’intenzione di questo Convegno: leggere l’oggi alla luce di esperienze significative del nostro passato. Riprendere una lezione ecclesiologica di grande valore ed originalità può essere per la Chiesa una possibilità di particolare interesse e rilevanza per scoprire il senso e le ragioni del proprio cammino nella storia, soprattutto in questo passaggio epocale verso il terzo millennio. Tanto più che questa lezione ecclesiologica va ben al di là della sola teoria: affonda le sue radici nell’esperienza stessa di Bruno, uomo di Chiesa in tutte le sue fibre.

E’, anzi, quello dell’esperienza personale di Bruno, il presupposto imprescindibile per entrare nella sua dottrina sulla Chiesa. Constatazione che sembra scontata, ma che assume un valore tanto più rilevante oggi, che la teologia è troppo spesso un prodotto di laboratorio, senza un legame vero e organico con la vita della comunità cristiana.

Basta invece leggere i testi di Bruno per trovarvi una vita ‘di Chiesa’ nel senso più profondo del termine e, correlativamente, basta seguire le vicende della sua vita, per cogliere una concezione di Chiesa come realtà vissuta, che sostiene e muove il suo agire.

Ma come scrivere l’ecclesiologia di Bruno di Segni?

Tra i temi dottrinali che si possono riscontrare nelle opere di Bruno, l’ecclesiologia è uno dei più insistiti. Ma invano si cercherebbe nelle opere di Bruno un trattato vero e proprio di ecclesiologia. Ma questo è un dato comune a tutti gli autori medioevali: il primo trattato De Ecclesia è il De regimine christiano di Jacopo da Viterbo (1301). A partire da questo trattato, la teologia – soprattutto la controversistica post-tridentina – elaborerà il trattato apologetico sulla Chiesa.

I riferimenti alla Chiesa sono sparsi in tutti i testi di Bruno, anche in contesti in cui tutto ci si aspetterebbe fuorché dei richiami alla Chiesa, ma senza assumere mai un carattere di sistematicità. Anche se due testi sembrano furmulare una dottrina più completa sulla Chiesa: Il Commento al Cantico dei Cantici[2] e soprattutto i primi due Libri delle Sententiae: De figuris Ecclesiae, De ornamentis Ecclesiae.

Ma anche queste opere sono ben lontane dall’offrire una sistematizzazione della dottrina della Chiesa, almeno così come la intendiamo oggi nei trattati di ecclesiologia. Più che una riflessione sistematica sulla Chiesa, si incontrano testi che riflettono il sentire Ecclesiam, o, secondo la famosa espressione di S. Ignazio di Loyola, il sentire in Ecclesia,  il sentire cum Ecclesia: si potrebbe parlare di un ‘sentirsi chiesa’[3] che traspare da tutti gli autori, i quali sono, nel senso pieno del termine, ‘uomini di Chiesa’. Si tratta di una ecclesiologia implicita, formulata in medio Ecclesiae.

 

 

I. Bruno, uomo ecclesiale

Se così stanno le cose, è difficile, se non impossibile individuare quel criterio, o quella categoria di pensiero che struttura in unità gli infiniti richiami al mistero della Chiesa disseminati nelle opere di Bruno di Segni. Quale punto di partenza scegliere allora? Se è vero che la sua teologia è sviluppata in medio Ecclesiae, e che riflette la sua esperienza di uomo di Chiesa, il suo sentire in Ecclesia, mi pare possibile fissare il punto di partenza per un esame dell’ecclesiologia di Bruno di Segni dalla sua stessa esperienza di vir ecclesiasticus. Bruno di Segni è un uomo della riforma gregoriana, di quei principi e convincimenti è completamente penetrato, e il suo pensiero riflette i suoi convincimenti più profondi, che hanno giudato tutta la sua vita.

La questione può essere formulata in questi termini: leggendo la vita di Bruno di Segni, quale concezione di Chiesa si coglie dietro le sue scelte?

Due episodi della sua vita possono aiutarci a capire il suo atteggiamento – o la sua anima – ecclesiale: l’elezione episcopale e lo scontro con Pasquale II.

 

  1. Lo scontro con Pasquale II.

Partiamo da quest’ultimo fatto, senz’altro il più doloroso della sua vita, perché rivela la situazione della Chiesa nel tornante tra l’XI e il XII secolo. Con fa frantumazione del Sacro Romano Impero, la Chiesa vive uno dei suoi momenti più bui e dolorosi: declino del papato, pratica diffusa della simonia e del ‘nicolaismo’, cioè del concubinato dei preti, acquisizione del diritto di investitura da parte del potere temporale, che fa della concessione di una carica ecclesiastica uno strumento di dominio e di ricatto, capace di strangolare ogni autonomia e libertà nella Chiesa.

Contro questi fenomeni devastanti reagisce quella che va sotto il nome di ‘riforma gregoriana’.

 Tra il 1050 e il 1150 circa la Chiesa conosce un grande movimento di riforma. Al soglio pontificio salgono finalmente uomini di grande levatura, che riescono a riconquistare l’indipendenza del papato di fronte al potere temporale, assumendo una funzione di preminenza nella vita del tempo. Uomini come Leone IX, Stefano IX, Niccolò II, Urbano II, ma soprattutto Gregorio VII, quell’Ildebrando di Soana, che fu l’anima della riforma, si applicarono a risollevare una coscienza di Chiesa squassata dalle divisioni, dalla caduta del papato, dal commercio delle cariche ecclesiastiche. Attorno a Gregorio VII si mossero alcuni uomini di grande respiro e intelligenza, come Pier Damiani e Umberto di Silvacandida; tra questi va senz’altro annoverato Bruno di Asti, Vescovo di Segni e Abate di Montecassino.

            Per questi uomini, quanto ostacolava e oscurava questa coscienza e dignità della Chiesa, era bollato come eresia. Per quanto l’uso linguistico del termine appaia dilatato rispetto alla definizione più formale di dottrina che contraddice una verità della Rilevazione insegnata dal Magistero, fa emergere una concezione di Chiesa di alto profilo, capace di sostenere e giustificare le lotte per la libertas Ecclesiae sia dentro che fuori la compagine ecclesiale, contro imperatori, re e principi.

Se, almeno a livello di prese di posizione ufficiali, ma anche di prassi diffusa, sembra ormai alle spalle la piaga della simonia, la questione dell’investitura ecclesiastica da parte del potere temporale, che contrappone Papato e Impero, vive in questo periodo i suoi momenti più estremi.

Nel 1070 l’assassinio di Tommaso Beckett con conseguente scomunica del re d’Inghilterra; nel 1075 il famoso Dictatus Papae e la proibizione di qualsiasi investitura laica; nel 1076 la scomunica di Enrico IV. Ma la pratica fu dura ad essere sradicata, come dimostrano tanti scontri, e tante forme di compromesso, teoriche e pratiche, non ultima quella di Anselmo di Aosta, costretto all’esilio per il dissidio con la corona d’Inghilterra.

            Il punto di soluzione sembrava l’accordo tra Pasquale II e Enrico V: rinuncia al diritto di investitura da parte dell’impero contro la restituzione di tutte le regalie da parte della chiesa. I tumulti in S. Pietro dopo l’annuncio dell’accordo, il drammatico imprigionamento di Pasquale II e l’imposizione del diritto alle investiture furono un colpo durissimo alla libertas Ecclesiae.

Il previlegio, estorto con la violenza provocò una vivace reazione nella Chiesa, soprattutto negli ambienti legati alla riforma gregoriana, che investì Pasquale II, costretto a ritrattare quel giuramento, che tutti ormai definivano pravilegium. Il sinodo di Vienne del 1112, il sinodo lateranse del 1116, il concordato di Worms del 1122, il primo concilio del Laterano nel 1123 segnano le tappe di una questione, che qui si richiamano solo perché coincidono con le date dell’esilio ‘di fatto’ che Bruno ha vissuto a Segni dopo lo scontro con Pasquale II, che ne segnò la deposizione come abate di Montecassino.

            Di questo periodo sono quattro lettere: a Pietro, vescovo di Porto, al proposito di S. Giorgio, ai Cardinali, al Papa stesso. Nella lettera a Pietro mostra la sorpresa che “alcuni dei nostri fratelli non solo non condannano quello che ora è stato perpetrato contro la chiesa, ma si sforzano sfacciatamente (impudenter,  o imprudentemente: impudenter?) di difenderlo. Chi difende l’eresia è eretico. Nessuno può dire che questa non sia eresia”, sentenzia Bruno, richiamando le determinazioni di molti concili. Nell’aggiunta del codice cassinese si parla di fuggire quanti ritengono e difendono questa eresia, “anche se li amiamo con l’affetto dei genitori e come i nostri occhi e  le nostre mani”. Si intende quelli che hanno sottoscritto il pravilegium? Se anche fosse, questo non significa condanna di quanti sono stati costretti a firmare con la violenza. Il criterio di discrimine su chi sia veramente eretico è il sostegno e la difesa esplicita del diritto delle investiture.

Ma più di un giudizio sulle persone, conta la libertà della Chiesa, e Bruno lo afferma senza mezzi termini: “Noi cercavamo la libertà della Chiesa, essi [gli eretici]invece la schiavitù”.

            Nella difesa della libertas Ecclesiae Bruno si rivela come uomo pienamente libero: non teme di dire la verità, anche a costo di dolorose conseguenze, come la destituzione da abate, il ritorno a Segni e l’ostilità del papa, segnata dalla probabile perdita di tutti gli amici di un tempo.

Richiesto di esporre la sua opinione sull’eresia delle investiture laiche, Bruno risponde che

 

“il papa non ama né me né il mio consiglio. Ma la buona decisione non deve essere mutata. Ed io ciò che ho affermato torno a ripetere e rimango fedelissimo alla sentenza di Gregorio e di Urbano, e spero dalla onnipotente misericordia di Dio di perseverare in questa decisione fino alla fine”.

Questa lettera segue alla lettera di Bruno a Pasquale II, dove emerge una realtà di Chiesa che va ben al di là dello scontro tra i due uomini. I rapporti gerarchici non tolgono a Bruno la parresìa che gli è consueta: tale e tanto alta è la concezione della Chiesa, che nulla va anteposto alla sua libertà.

A Pasquale, pontefice, grande signore e padre, Bruno peccatore, vescovo, servo del beato Benedetto.

I miei nemici ti dicono che io non ti amo e che sparlo di te. Mentono. Io infatti ti amo come devo amare un padre e un signore e, te vivente, non voglio avere altro pontefice, come insieme a molti altri ti ho promesso. Ascolto però il Salvatore nostro che mi dice ‘Chi ama il padre  o la madre più di me non è degno di me’ (Mt 10,37). Donde anche l’apostolo dice: ‘Se qualcuno non ama il Signore sia anatema. Maran atha (1Cor 16,22). Devo dunque amare te, ma più ancora devo amare colui che ha fatto te e me. Niente mai deve essere preferito a questo grande amore.

Io non lodo quel patto così vergognoso, così violento, fatto con tanto tradimento e così contrario ad ogni pietà e religione. E neppure tu, come ho inteso dire da molti. Chi infatti potrebbe lodarlo? In esso viene violata la fede, la Chiesa perde la libertà, viene soppresso il sacerdozio, viene chiusa l’unica e singolare porta della Chiesa, vengono aperte molte altre porte, per le quali chi entra è ladro e assassino.

Abbiamo i canoni, abbiamo le costituzioni dei santi padri dagli apostoli fino a te. Bisogna camminare per la via regia, e da essa non deviare in alcuna parte”.

E dopo aver ricordato al papa di aver emanato dei canoni che condannano l’eresia delle investiture laiche, che escludono dalla comunione ecclesiale quelli che li contraddicono, lo invita con toni accorati:

“Dunque, padre venerabile, conferma di nuovo questa costituzione tua e degli apostoli, predicala apertamente a tutti gli ascoltatori nella tua chiesa, che per tutti è a capo delle chiese. E condanna con l’autorità ecclesiastica questa eresia, e subito vedrai tutta la chiesa riappacificarsi con te; subito vedrai tutti affluire ai tuoi piedi e con grande gioia obbedire a te come a padre e signore.

Abbi pietà della Chiesa di Dio, abbi pietà della sposa di Cristo! E per mezzo della tua prudenza recuperi la libertà, che poco fa per te ha perduto.

Io poi faccio poco conto di quell’obbligo e di quel giuramento di cui abbiamo parlato sopra; né per la violazione di quel giuramento ti sarò mai meno obbediente”.

L’ecclesiologia che sta dietro questa lettera è quella tipica della riforma gregoriana: la Chiesa di Cristo, che Dio vuole libera, non può e non deve essere messa in condizione di soggezione al potere temporale. Il suo statuto di libertà – che è condizione anche di superiorità sull’impero – è reso possibile dalla contrapposizione del potere papale a quello imperiale e dalla rigorosa unità di tutta la Chiesa attorno al suo capo. Si capisce in questo quadro la presa di posizione di Bruno, che dice senza mezzi termini a Pasquale II come in quel patto

“viene violata la fede, la Chiesa perde la libertà, viene soppresso il sacerdozio, viene chiusa l’unica e singolare porta della Chiesa, vengono aperte molte altre porte, per le quali chi entra è ladro e assassino”.

 

  1. L’elezione episcopale

Ma l’ecclesiologia di Bruno di Segni si riassume e si riduce ai contenuti della riforma gregoriana? O piuttosto, egli è un uomo della riforma perché più a monte è mosso e sostenuto da convinzioni più profonde, che implicano anche una particolare comprensione della Chiesa?

Prima di arrivare ai contenuti dottrinali della sua opera, una scelta di Bruno lascia riverberare le sue idee e convinzioni in fatto di Chiesa: la sua elezione a vescovo.

Tanto il Chronicon casinense che l’Anonimo conoscono il fatto.

“Mentre Bruno, giunto a Segni, s’appressava a compiere ciò che gli era stato ingiunto (presiedere all’elezione del vescovo), il papa fece sapere segretamente ai segnini di eleggerlo loro vescovo. Appresa questa notizia, Bruno, nel silenzio della notte profonda, uscì dalla chiesa di S. Maria e se ne fuggì. Meditava i suoi propositi, quando in un trivio gli apparve una signora, avvolta in un mantello imperiale, il cui volto splendeva come il sole. Gli si parò dinnanzi. A lei Bruno chiese chi fosse, che volesse, dove andasse. Quella rispose: ‘Sono la tua sposa che ingiustamente abbandoni, perciò ti ordino, da parte di Dio onnipotente, di ritornare alla tua Chiesa: e guardati dal resistere ancora alla volontà di Dio. Ciò detto disparve. Bruno, colpito dalle parole di quella signora, si sottomise alla volontà di Dio per la sua elezione e con la soddisfazione di tutti salì sulla cattedra episcopale” (Chronicon, cap. 31).

 

“Bruno, quantunque affermasse di sentirsi impari a tale onere e onore, e non se ne reputasse idoneo, tuttavia, perché non sembrasse di voler resistere alla volontà divina, che gli si manifestava nei desideri di molti, umilmente acconsentì all’avvenuta sua elezione. Soprattutto lo inducevano ad accettare questo ufficio alcune visioni, che egli affermava di aver visto le notti precedenti.

Una notte gli era apparsa in visione una bellissima signora, che, presagli la mano, lo conduceva per il palazzo lateranense. Poi messogli al dito anulare un anello d’oro, che lei recava in mano, se ne ritornò nella sua abitazione. Comprese poi che nell’anello era significato il dono sponsale, poiché era stata a lui destinata come sposa la chiesa di Segni. La notte successiva gli apparve la medesima signora, che gli offriva un canestro contenente altri sette canestri. Il canestro maggiore simboleggiava la città di Segni, i sette canestri minori i sette castelli soggetti alla Chiesa segnina” (Anonimo, Secondo giorno, lez. 10-11).

Al di là degli elementi agiografici[4], in ambedue i racconti la Chiesa è identificata con una bellissima signora. Chiaro il riferimento alla Chiesa-Sposa.

 

II. L’ecclesiologia di Bruno di Segni

            E’ significativo che il riferimento alla Chiesa-sposa si trovi in ambedue gli episodi citati: nel momento dell’elezione a vescovo, dove gli agiografi di Bruno parlano di una ‘bellissima signora’, e nel drammatico scontro con Pasquale II, al quale Bruno chiede: “ Abbi pietà della Chiesa di Dio, abbi pietà della sposa di Cristo!”. Appare questa la figura attraverso la quale Bruno interpreta tutta la realtà della Chiesa.

Questa concezione sta più in radice rispetto al quadro teologico – o ideologico – di riferimento della riforma gregoriana.  Si sa che è di questo periodo l’elaborazione, conseguente alle dispute tra papato e impero, di una ecclesiologia di tipo giuridico. Se ancora non è il  tempo della canonistica (le Decretali di Graziano sono del 1140-1150), l’orientamento in senso canonico già si va imponendo con l’elaborazione di una teoria dei poteri, che distingue tra potere temporale e spirituale e traccia la carta dei diritti e delle prerogative della Chiesa.

Al di fuori di questo riferimento, che deriva dallo scontro tra i due poteri, la teologia del tempo non si applica all’ecclesiologia, se si eccettua la questione dei sacramenti[5].

            Queste affermazioni appaiono anche in Bruno, il quale sottolinea in modo netto le funzioni e le prerogative di apostoli et doctores. Ma non si troveranno mai secondo quello schema di pensiero: per Bruno la grandezza della Chiesa si comprende su un registro mistico più che giuridico.

Per dimostrarlo basta una veloce lettura del commento esegetico di Bruno di Segni a Mt 16,18, che per la teologia e la canonistica del tempo era il fondamento del potere di ordine e di giurisdizione del sommo pontefice[6]. Per Bruno la risposta di Pietro – Tu es Christus, Filius Dei vivi – è data in quanto princeps apostolorum. Ci si aspetterebbe quindi una dimostrazione del primato pontificio. Invece il commento, in linea con la lettura allegorica della Scrittura, si sviluppa su un registro tutto spirituale. Singolare l’affermazione circa Pietro come uomo spirituale: spiegando l’appellativo Barjona, che significherebbe ‘figlio della colomba, Bruno afferma che il titolo indica Pietro come uomo spirituale (dal momento che la colomba rimanda allo Spirito), il quale dà una risposta spirituale, che non procede da carne e sangue, ma dal Padre stesso. Più singolare ancora la spiegazione della fondazione della Chiesa su Pietro:

E il ti dico, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa. Tu dici, e dici il vero, che io sono il Cristo, il Figlio del Dio vivente; e io dico a te, che tu sei Pietro, forte nella fede e stabile nella dottrina. Se infatti in questo nome il Cristo non avesse inteso la fortezza e la stabilità,  non avrebbe aggiunto ciò che segue immediatamente: e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa. Se non comprendi Pietro, guarda la pietra: la pietra era Christo. Così dunque pietra deriva da Pietro, come Cristiano da Cristo.

Vediamo poi che cosa significhi sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa. [Significa] sopra questa pietra, che tu proprio ora hai posto a fondamento della fede; sopra quella fede, che tu proprio ora hai manifestato, dicendo: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente; sopra questa pietra e sopra questa fede edificherò la mia Chiesa. Concordando con questa sentenza, l’Apostolo dice: Nessuno può porre un altro fondamento oltre quello che già è stato posto, che è Cristo Gesù (1Cor 3,11). Ma se dice: Non esiste altro fondamento, se non quella pietra che Pietro pose a fondamento, quando disse: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente: è sopra questa pietra che si edifica tutta la Chiesa di Dio.

Né questa interpretazione spirituale esclude la dimensione istituzionale della Chiesa, tipica della riforma gregoriana. Spiegando il significato delle ‘porte degli inferi’, Bruno invita a conoscere prima le ‘porte del cielo’, che, a suo parere, sono gli apostoli, i vescovi e i sacerdoti, e tutti quei fedeli che per dottrina e per vita esemplare hanno varcato le porte del cielo. Sono invece ‘porte degli inferi’, che tuttavia non possono prevalere contro quella pietra, e quindi contro la Chiesa, i giudei e gli eretici, tutti i seduttori e i corruttori della fede cristiana: attraverso di loro le anime infedeli vanno all’inferno.

            Bruno conosce, e condivide l’impostazione piramidale della Chiesa: spiegando l’arca di Noé come figura della Chiesa, afferma:

 

Se qualcuno intende considerare gli ordini della Chiesa, come per ordine siano disposti sopra i laici i chierici, sopra i chierici i presbiteri, sopra i presbiteri i vescovi, sopra i vescovi gli arcivescovi, sopra questi i patriarchi, e alla fine si scopra il sommo pontefice, anche in questo modo potrà capire come l’arca di Dio sia ampia nelle parti inferiori, restringendosi progressivamente per terminare in alto in un solo cubito [di larghezza][7].

Anche quando descrive la struttura istituzionale della Chiesa, Bruno lo fa sempre attraverso il metodo che gli è più familiare: l’interpretazione spirituale della Scrittura.

E’ in questa linea che assume tutto il suo valore la figura della Chiesa come Sposa di Cristo.

Bastino due citazioni, tratte dal commentario alla Genesi e dal commentario al Cantico dei Cantici.

Spiegando la creazione della donna, Bruno istituisce il parallelo tra l’Adamo dormiente, da cui viene creata Eva, e Cristo, il secondo Adamo. dal cui costato nasce la Chiesa:

“Come, infatti, Eva fu fatta da una costola sottratta all’Adamo dormiente, così il sangue, che redense e creò (fabricavit) la Chiesa, uscì dal costato di Cristo che in croce dormiva il sonno della morte”[8].

Questa descrizione è preceduta dal riferimento a Ef 5,32: “Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”. Il quadro interpretativo di Bruno è quindi l’idea biblica della Chiesa-sposa, che Cristo presenta al Padre senza macchia né ruga, ma tutta santa, lavata suo sangue dell’Agnello. Stesso quadro interpretativo nel Commento all’Apocalisse, quando parla di coloro che sono stati lavati nel sangue dell’Agnello (Ap 7,14).

Ancora più intensa una citazione del Cantico dei Cantici: commentando Ct 3,11 (“Uscite, figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre nel giorno delle sue nozze”), Bruno identifica Cristo con Salomone. Domandandosi quando il Cristo fu coronato re, Bruno risponde:

“Nel giorno delle sue nozze. Cioè nel giorno in cui Cristo fece le nozze, e si sposò la Chiesa del Padre, e dal costato del dormiente ne fece la sposa (coniugem).E infatti, come dall’Adamo dormiente, sottratta una costola, fu fatta Eva, così dal Cristo dormiente,  con il costato perforato dalla lancia, fu fatta la Chiesa”.

Anche qui il quadro di riferimento è Ef 5,32: la Chiesa che Cristo unisce a sé è la Chiesa senza macchia né ruga. D’altra parte, quando commenta l’abbraccio dello sposo e della sposa, Bruno afferma che questo abbraccio significa che Cristo è morto per la Chiesa. 

Più avanti, domandandosi chi è ‘costei che sale dal deserto’, Bruno pone sulla bocca di Cristo-Sposo queste parole:

“Chi, quale, quanto bella, quanto ammirabile è colei che sale, affrettandosi [muovendosi in fretta] di virtù in virtù? Che virtù e audacia possiede colei che viene attraverso il deserto verso di me? Attraverso il deserto, e attraverso le avversità di questo secolo, la Chiesa attraversò [il deserto] fino al Signore, senza temere le insidie dei briganti, le spade dei tiranni, i denti dei leoni, i sofismi dei giudei e degli eretici”.

La Chiesa è la virgo beata, la sponsa pudica, la dulcis amica [9].  Ma, al di là della bellezza formale e della capacità evocativa dell’immagine, che cosa sottende propriamente la definizione della Chiesa come sposa? Si tratta di una immagine poetica, che non si coniuga con la realtà di una chiesa in lotta sul fronte interno con i simoniaci e i nicolaiti, e sul fronte esterno con l’impero?

In Bruno di Segni la figura della Chiesa è onnicomprensiva, meglio sarebbe dire onnipervasiva: a questa definizione Bruno riconduce tutti gli aspetti della Chiesa, tanto quelli misterici che quelli istituzionali. Basta leggere l’inno a conclusione del capitolo quarto del Cantico:

Abbiamo detto che la Chiesa / è la sposa regale del Re,

della quale voi profeti siete gli occhi, / voi, Pietro e Paolo, i denti fortissimi, / che continuamente la rinvigorite.

Le guance sempre rosee / sono in modo particolare i martiri.

Gli imperfetti e i deboli di minor merito / sono i capelli, / perché come quelli sono instabili.

Al collo abbellito di medaglie / assimiliamo i vescovi, / che difendono fortemente le loro pecore / perseguitando i vizi, / i leoni, le furie velenose e i dragoni.

Il giardino è il luogo santissimo e inviolabile dei santi, / che non manca di gigli e di rose, ? né gli alberi sono privi dei loro frutti. / Qui c’è una fonte dal sapore dolcissimo / che il soffio dei venti, / cioè le schiere dei tiranni / perturba e agita con violenza; i martiri raggiungono il cielo con onore, / al Signore piace il loro profumo.[10]

Anche nel commento a Sir 31,10-31, Bruno afferma, con un testo poetico, che la donna forte è simbolo della Chiesa:

Con grande certezza conoscemmo / che il discorso di Salomone / indica la Chiesa / donna fortissima.

Costei il re più sapiente / e più potente di tutti i re, / venendo in forma umana / si scelse in sposa.

In questa ci sono moltissimi profeti/ apostoli, vescovi / confessori e martiri/ insieme a vedove e vergini[11].

Nel Primo Libro delle Sententiae le otto figure della Chiesa sono le illustrazioni più significative del mistero della Chiesa-Sposa: il paradiso terrestre, l’arca di Noé, l’arca dell’alleanza, la donna che raffigura la Chiesa, la città di Gerusalemme, le basiliche dedicate dai vescovi (il rituale di dedicazione),  i Vangeli. Tutte le caratteristiche di queste figure sono applicate in modo esemplare alla Chiesa, che appare così in tutta la sua santità.

Ma, più ancora, è il Libro Secondo – De ornamentis Ecclesiae – che dice l’idea di Chiesa di San Bruno di Degni: gli ornamenti della Chiesa sono infatti la fede, la speranza, la carità; sono le quattro virtù cardinali e le altre virtù e doni dello Spirito: l’umiltà, la misericordia, la pace, la pazienza, la castità, l’obbedienza, l’astinenza. La Chiesa non è altra dai cristiani che vivono secondo queste virtù: di conseguenza, la Chiesa appare come la regina che sta alla destra del re, splendidamente vestita e adornata di gioielli (Sal 44,11ss). L’oro, le pietre preziose, gli abiti intessuti e trapunti d’oro indicano la sapienza, la vita integra, la purezza: la Chiesa così descritta è “la tutta sapiente, la tutta monda e incorrotta”[12]. E’ un modo particolare di parlare della santità della Chiesa, che costituisce il leit-motiv dell’ecclesiologia di San Bruno di Segni. C’è Chiesa dove c’è la santità: questo spiega e giustifica la lotta instancabile e senza quartiere contro simoniaci e nicolaiti; questo spiega, in ultima analisi, la forte presa di posizione contro Pasquale II.

 

CONCLUSIONE

Bastano questi cenni per dimostrare come risultato certo che l’ecclesiologia costituisce la prospettiva fondamentale di tutta l’opera, anche esegetica, di Bruno di Segni. La caratterizzazione di questa dottrina è in linea con il suo approccio ermeneutico alla Sacra Scrittura: la Chiesa è interpretata in prospettiva simbolico-allegorica. In questo modo tutto è riportato all’esistenza concreta della Chiesa, chiamata ad essere ciò che da sempre è, perché così è stata voluta da Cristo: la Sposa di Cristo, la Chiesa santa.

Bruno di innesta nel solco della tradizione patristica, mutuando l’immagine della Chiesa-Sposa e i suoi contenuti da una linea interpretativa ben consolidata. Già Tertulliano diceva:

Allo stesso modo che Adamo era figura del Cristo, il suo sonno prefigurava la morte del Cristo che doveva dormire il sonno della morte, così come la ferita prodotta al suo fianco prefigura la Chiesa, la vera madre dei viventi” [13].

I Padri parlavano di ‘estasi dell’amore’[14] di Cristo, Verbo incarnato, per la Chiesa-sposa, che, unita al suo Signore, diventa Madre, generando figli alla vita nuova in Cristo. Stupenda, in questo senso, l’iscrizione, attribuita a S. Leone Magno, che campeggia nel battistero di S. Giovanni in Laterano:

Un popolo consacrato al cielo è germogliato qui da un seme sublime,

è lo Spirito che lo genera da una sorgente fecondata. […]

La Chiesa che genera in modo verginale da queste acque rilascia dei figli

dopo averli concepiti come embrione per il soffio divino. […]

Qui è la sorgente della vita, che si diffonde su tutta quanta la terra,

e che scaturisce in maniera sublime dalla ferita di Cristo. […][15].

Questa figura è capace di recuperare anche le dimensioni più negative e peccaminose della Chiesa, così come erano percepite nel contesto della riforma gregoriana, impegnata a svellere la simonia e il nicolaitismo. Bruno di Segni si muove in questa linea di pensiero, per spiegare il mistero della Chiesa nata dal fianco dell’Adamo dormiente e purificata dal suo Sangue.

La sua ecclesiologia sembra trarre ispirazione da due prospettive, che si garantiscono e si alimentano a vicenda: l’esperienza della vita ecclesiale, che lo ha visto sempre in primo piano, e la riflessione che scaturisce dalla lectio divina. Questa innerva quella, e quella sostanzia questa, in un vero e proprio circolo virtuoso.

Da questa indissociabilità di dottrina e testimonianza discende il tratto più peculiare dell’ecclesiologia di Bruno di Segni: l’amore alla Chiesa, sempre e comunque, al di sopra di tutto!

Amore che traspare nel linguaggio simbolico, che non rimanda a qualcosa di fittizio, quasi un dilettamento fine a se stesso attraverso immagini poetiche, ma alla REALTA’ della Chiesa-mistero, che non può essere esaurita in definizioni giuridiche, ma rimanda sempre oltre, nel cuore di Colui che, versando il suo sangue dalla croce, ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre (cfr Ap 1,6).

                                                                              

 

[1] Peraltro organizzati secondo uno schema di pensiero, come quello della teologia controversistica, totalmente estraneo alle prospettive e ai modelli di Bruno di Segni.

[2] Diceva Origene: “Beato chi penetra nel Santo, ma più beato chi penetra nel Santo dei Santi; beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma più beato chi comprende e canta il Cantico dei Cantici”: (In cant. Prol.). Tutta la tradizione patristica e monastica accoglierà questo indirizzo, commentando soprattutto i salmi e il Cantico dei Cantici, due dei testi maggiori dell’esegeta Bruno di Segni.

[3] Cfr FELICI, S., Ecclesiologia e catechesi patristica: ‘sentirsi chiesa’, LAS, Roma, 1982.

[4] Ma questi elementi non vanno trascurati. Gli agiografi lasciano intravvedere nella scelta di fuggire l’episcopato una scelta più a monte: il monastero.  Oltre alle convinzioni ecclesiologiche del suo tempo, Bruno condivide con i migliori uomini della riforma gregoriana, il famoso contemptus mundi, il rifiuto e la fuga dal mondo. Basta richiamare la responsio ad eam questionem: Cur corruptus tunc temporis Ecclesiae status, posto al termine della Vita S. Leoni IX, in cui afferma che fino al tempo di papa Leone IX la Chiesa era tanto corrotta che non si trovava chi non fosse simoniaco o ordinato da simoniaci, per cui il sacerdozio della Chiesa sembra ormai decaduto definitivamente.

Senza raggiungere i toni aspri di S. Pier Damiani, anche Bruno vede il mondo come luogo di tentazione e ribadisce con insistenza il suo desiderio di ritirarsi in monastero come luogo di ricerca di perfezione, “quieto porto a cui sono giunto sotto la guida di Cristo” (Vauchez). L’esercizio del ministero episcopale, soprattutto nell’ambito degli uffici della curia romana, costituisce un ostacolo nel cammino della santità. Tutto questo è evidente nella lettera che Bruno scrive a Pasquale II in occasione del suo ingresso all’abbazia di Montecassino: “Tutti coloro che si trovano nella Chiesa romana sanno che, se la pazzia degli scismatici non avesse incrudelito contro la Chiesa, già da molti anni avrei fatto ciò che ora ho portato ad effetto. Ma ora che la Chiesa di Cristo, Dio nostro, diffusa per l’orbe, si rallegra con la Chiesa romana, che regge le chiavi di Pietro, perché tacciono i turbini dei venti e i mari riposano calmi, mi sia permesso mantenere ciò che ho promesso per voto”.

Per giustificare la scelta di lasciare l’esercizio della funzione episcopale, Bruno contrappone la sua retta intenzione di ricercare la santità, sostenuta da tanti esempi ( e qui probabilmente si riferisce a S. Pier Damiani), alla scelta di quanti, continuando ad esercitare indegnamente l’episcopato, cadranno sotto il giudizio del Signore.

Anche qui Bruno mostra una posizione non allineata sul modello di santità che andava imponendosi con la riforma gregoriana. Contro il modello impersonato dal rex iustus con la canonizzazione di tanti re e imperatori: Venceslao, Olaf di Norvegia, Stefano d’Ungheria (ma cfr il tentativo di istituzionalizzare la devozione a Carlo Magno, perseguito dall’impero), la Chiesa sottolineava il vir ecclesiasticus, capace, come Tommaso Beckett, di subire il martirio per la libertas Ecclesiae. In altre parole, la Chiesa contrapponeva i suoi eroi, capaci di opporsi ai lupi (gli imperatori, i re, i feudatari), come buoni pastori che contrastano i mercenari.

Sarà perché questo ideale di santità è solo agli inizi, sarà per le probabili umili origini di Bruno, sta di fatto che il suo ideale di santità è più in sintonia con il modello monastico, “che fa del chiostro l’anticamera del paradiso” (Vauchez).

L’ecclesiologia che soggiace alla scelta di Bruno è quella, tipicamente medioevale, dei duo genera christianorum: il primo, quello dei chierici, è dedito alla contemplazione e alla preghiera; chi ne fa parte è chiamato re, in quanto, reggendo se stesso e gli altri con le virtù, ottiene il regno di Dio e quindi la corona regale; il secondo è formato dai laici, impegnati nelle realtà temporali, i quali possono salvarsi se, facendo del bene, evitano i vizi (Decretum Gratiani, XII).

[5] E’ significativo che un autore come Anselmo di Aosta (1033-1109), che tanto sviluppo aveva dato alla riflessione teologica, non affronti questioni sulla Chiesa, se non l’Epistula de sacrificio azymo et fermentato e l’Epistula de sacramentis Ecclesiae.

[6] Commentarium in Matthaeum, LXVIII, PL 165, 211-215.

[7] Sententiarum liber primus, cap. II: PL 165, 881.

[8] In Genesim, cap. II, PL 164, 166.

[9] Expositio in Cantica, II, PL 164, 1241.

[10] Expositio in Cantica, IV, PL 164, 1262.

[11] Expositio de muliere forte, PL 164, 1234.

[12] Sententiae, lib. II, cap. XII, C: PL 165, 940.

[13] TERTULLIANO, De Anima,11: PL

[14] METODIO D’OLIMPO, Banchetto, III, 6,35

[15] Iscrizione nella Chiesa battesimale di S. Giovanni in Laterano. L’erezione del peristilio, se non della chiesa, è attribuita a Sisto III tra il 432 e il 440, e ancora oggi conserva la stessa collocazione. E’ così improbabile pensare che S. Bruno la conoscesse e ne traesse ispirazione per la sua concezione della Chiesa-Sposa e Madre? Per il testo dell’iscrizione, cfr RAHNER, H. (cur.), Mater Ecclesia. Inni di lode alla Chiesa tratti dal primo millennio della letteratura cristiana, Jaca Book, Milano, 1972, 62.

Free Joomla templates by Ltheme