Questa sezione contiene articoli e scritti di vari autori che aiutano ad approfondire il pensiero, la vita e gli insegnamenti di San Bruno. La proprietà letteraria degli articoli è degli autori e non è consentita la riproduzione, anche parziale, dei testi senza loro esplicita autorizzazione.

Eucaristia in Bruno di Segni

di Dario Vitali

Nella lettera apostolica Mane nobiscum Domine, Giovanni Paolo II si augurava che l’anno dell’Eucarestia fosse per tutti «occasione preziosa per una rinnovata consapevolezza del tesoro incomparabile che Cristo ha affidato alla sua Chiesa»[1]. Tra i suggerimenti e le proposte che il documento della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti indicava per la celebrazione dell’anno dell’Eucarestia era indicata anche la ricerca storica: «Alle facoltà teologiche in particolare si suggerisce come pista significativa di coniugare l’approfondimento dei fondamenti biblici e della dottrina dell’Eucarestia  con l’approfondimento del vissuto cristiano, specie il vissuto dei santi»[2].

Risponde pienamente a tali indicazioni il recupero della dottrina eucaristica di una grande figura del Medioevo, uno dei protagonisti della riforma gregoriana accanto a Gregorio VII, Vittore III, Urbano II: Bruno di Segni[3]. Ben due volumi del Migne (164-165) documentano la sua ampia attività di esegeta e di teologo, assai divulgato nei secoli successivi, fino alla seconda metà del XIX secolo, quando si verifica un silenzio pressoché totale, quasi una damnatio memoriae, forse imputabile alle parole di rimprovero rivolte da Bruno, allora abate di Montecassino, a Pasquale II per il cedimento all’imperatore Enrico V sul fronte della lotta per le investiture; parole che risultavano perlomeno inopportune a fronte della definizione del primato petrino e dell’infallibilità pontificia esplicitamente dichiarata al concilio Vaticano I.

L’interesse a recuperare la dottrina eucaristica di questo autore è data dal fatto che nella tradizione della chiesa di Segni – la piccola città laziale dove fu vescovo per quarantaquattro anni, dal 1079 al 1123 – san Bruno riceve il titolo di «dottore eucaristico». Il titolo è riconnesso dall’Anonimo segnino alla disputa con Berengario di Tours al sinodo romano del 1079:

«In quel tempo doveva essere discussa presso il papa Gregorio VII, che risiedeva nel palazzo del Laterano, una grave questione. Si trattava del sacramento del corpo e del sangue di nostro Signore Gesù Cristo. Un certo maestro Berengario non insegnava questo sacramento secondo la fede. Né si trovava alcuno che osasse discutere con tale maestro sul mistero eucaristico: sia perché quel maestro era molto abile nella discussione, sia perché l’umana ragione, aproposito di questo mistero, non offre alla fede prove di esperienza.

Ma era giunto il tempo in cui la probità e la scienza di Bruno dovevano risplendere a tutti nella curia romana. Dal sommo pontefice egli accettò l’incarico di disputare con quel maestro, e con ragionamenti serrati lo convinse, riportandolo dall’errore alla verità e, per grazia di Dio lo riportò all’unità cattolica»[4].

Per quanto sia problematico sostenere le affermazioni dell’Anonimo segnino, vale la pena di interrogarsi sulla teologia eucaristica di Bruno di Segni, perché la sua opera contiene alcune pagine sull’Eucarestia che permettono di fare il punto sulla dottrina nell’XI secolo, cogliendo il dibattito in atto, anche in relazione con le teorie di Berengario di Tours. 

 

  1. Bruno di Segni «dottore eucaristico»?

Come si è detto, il titolo di «dottore eucaristico» sarebbe legato alla disputa con Berengario di Tours, il quale professava una dottrina erronea sull’eucarestia. Convocato a Roma una prima volta nel 1059 e poi di nuovo a distanza di vent’anni, pronuncia al sinodo lateranense del 1079 (11 febbraio) la seguente professione di fede, con la quale si sottomette all’autorità della chiesa:

«Io Berengario, credo con il cuore e confesso con la bocca che il pane e il vino posti sull’altare, in virtù del mistero della santa preghiera e delle parole del nostro Redentore, sono trasformati sostanzialmente (substantialiter) nella vera e propria e vivificante carne e sangue del NSGC e che dopo la consacrazione sono il vero corpo di Cristo, che nacque dalla Vergine e che per la salvezza del mondo fu appeso alla croce e che siede alla destra del Padre, e il vero sangue di Cristo che fu effuso dal suo fianco, non soltanto mediante il segno e la virtù del sacramento, ma nella proprietà della natura e nella verità della sostanza (in proprietate naturae et veritate substantiae[5] (DS 700).

La professione di fede segue la disputa che Berengario, nell’autunno del 1078, sostenne con un gruppo di teologi. Se è certo che Bruno abbia partecipato alla disputa, non esistono argomenti per sostenere che le prove opposte al canonico di Tours siano di Bruno. Si può solo affermare che Bruno abbia condiviso la dottrina esposta nella professione di fede imposta a Berengario, ma non si può dire in quali termini abbia contribuito alla sua formulazione. Il che significa che non è possibile attribuire a Bruno di Segni il titolo di «dottore eucaristico», almeno sulla base della disputa da lui sostenuta con Berengario. Tanto più quando si riscontra che l’Anonimo trasferisce a Bruno ciò che il chronicon casinense attribuisce ad Alberico, altro monaco di Montecassino, uno dei teologi più conosciuti e stimati del tempo, presente tra coloro che sostennero la disputa teologica con Berengario. In quel gruppo Bruno era un giovane e brillante commentatore della sacra Scrittura, appena venuto da Siena, probabilmente al seguito di Pietro Igneo[6], monaco vallombrosano chiamato da Gregorio VII a collaborare alla riforma con il titolo di cardinale vescovo di Albano.

Naturalmente, il ruolo di Bruno cambia a seconda del motivo per cui Bruno sia venuto a Roma: se direttamente chiamato dal papa per partecipare a questa diatriba teologica o come un chierico al seguito di Pietro Igneo, da questi presentato al papa e ammesso alla discussione per intervento del suo mentore[7]. Il fatto che Pietro Igneo accompagni Bruno a Segni in occasione della sua indicazione a vescovo della città fa propendere per questa seconda ipotesi, ma non esclude tassativamente la prima: Bruno poteva già essere conosciuto e stimato negli ambienti romani per i suoi commentari.

Comunque stiano le cose, Bruno stesso accenna alla disputa con Berengario nel commento al Levitico: «Il tal giorno si presentò un certo Berengario, che ci portava su discorsi impossibili disputando filosoficamente del corpo e sangue di Cristo. Ma noi, che non comprendevamo con la ragione, lo bruciammo con il fuoco dello Spirito e della carità, e credemmo non tanto agli argomenti, ma alla fede dei santi e alle auctoritates. Per cui è detto: “ma ciò che si troverà il terzo giorno, dovrà bruciarsi nel fuoco” (cf Lv 7,17). Infatti, nelle affermazioni eretiche alle quali non potevamo resistere con la ragione e le argomentazioni, resistemmo per fede, sulla base dell’autorità e con il fuoco della carità»[8].

Queste parole dicono tutta la difficoltà a misurarsi con la teoria di Berengario. Per il canonico di Tours, l’Eucarestia è unicamente figura, similitudo, simbolo del corpo e sangue di Cristo. La sua dottrina è una contestazione della dottrina sulla presenza reale proposta da Lanfranco di Pavia, abate del Bec e poi arcivescovo di Canterbury prima di Anselmo, nel De corpore et sanguine Domini. Opera nella quale riprendeva sostanzialmente il Liber de corpore et sanguine Domini di Pascasio Radberto, scritta più di due secoli prima (831), che influenzerà tutto il dibattito successivo. Partendo dal fatto che la formula “corpo di Cristo” indica l’eucarestia (corpo mistico), la chiesa (corpo reale) e il corpo morto e risorto di Cristo, l’abate di Corbie affermava l’identità del corpo di Cristo eucaristico con quella del risorto, il quale si unisce alla chiesa e ad ogni suo membro nutrendolo nella celebrazione eucaristica. Questo è possibile perché, in virtù della consacrazione si realizza una creazione che determina una mutazione sostanziale del pane e del vino in corpo e sangue del Signore. Per cui la presenza di Cristo  nell’eucarestia è personale, reale, corporale; e tuttavia non è carnale (cioè nell’ordine della carne, che secondo il linguaggio giovanneo non giova a nulla) ma spirituale.

 

Contro questa impostazione realista, che riprendeva sostanzialmente la concezione dei Padri della Chiesa, Berengario afferma una presenza solo spirituale e non reale del corpo e sangue di Cristo nell’Eucarestia. Egli arriva a tale conclusione applicando al sacramento la distinzione aristotelica di sostanza e accidenti: per il fatto che questi non possono mai esistere senza poggiare sulla sostanza, se permangono gli accidenti del pane e del vino ne consegue che rimanga anche la loro sostanza, sulla quale essi poggiano. Ipso facto non può darsi alcuna presenza reale, sostanziale, del corpo e sangue di Cristo, che può essere unicamente spirituale, simbolica, figurata.

La chiesa, con molte esitazioni, si appella alla tradizione e riafferma la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo, ribadendo l’identificazione tra corpo eucaristico e corpo del risorto. E questa è stata la dottrina che anche Bruno di Segni ha professato e difeso.

 

  1. Il contributo di Bruno di Segni alla dottrina eucaristica

Ma quale fu il contributo di Bruno alla precisazione e allo sviluppo della dottrina eucaristica? Non essendoci testimonianze e prove che documentino i suoi interventi al dibattito con Berengario, la sola via che si può seguire è quella della critica interna: verificare se e quanto negli scritti compaia la dottrina eucaristica.

Ora, la prima constatazione è che le affermazioni sull’eucarestia contenute nei due volumi non sono così ampie e articolate come ci si aspetterebbe; almeno, non sono tali da giustificare il titolo di “dottore eucaristico”. Non esiste, infatti, un trattato sull’Eucarestia. Non mi sembra, infatti, che si possa ritenere tale il trattato De sacrificio azymo[9], che si limita a dirimere una questio disputata con gli orientali sul pane azzimo o fermentato da usarsi nel sacrificio eucaristico: si tratta di un libello polemico, come se ne trovano tanti in quel periodo, a pochi anni di distanza dallo scisma con Costantinopoli, da Umberto di Silvacandida a s. Pier Damiani a s. Anselmo d’Aosta. Non si trovano riferimenti all’eucarestia nel De sacramentis Ecclesiae[10], nemmeno nel capitolo sull’altare (14 righe in tutto!).

Il testo più ampio si può rinvenire in un sermone che è inserito come cap. IX del libro IV delle Sententiae: In coena Domini[11] (mentre il tema dell’eucarestia non è trattato nel sermone 66 in coena Domini, che commenta Gv 13). Il testo riprende alla lettera quanto già detto nelle opere esegetiche, in particolare nel commento al cap. 12 dell’Esodo e al cap. 6 di Giovanni. A questi passi, che Bruno commenta in chiave eucaristica, bisogna aggiungere i Commentaria in Matthaeum e in Lucam, il primo sull’istituzione dell’Eucarestia, il secondo sul passo parallelo e sull’episodio dei discepoli di Emmaus, ma anche il commento al Levitico, dal quale si evince la presenza di Bruno alla disputa teologica sull’eucarestia che precedette il concilio lateranense del 1079.

Cominciamo dall’Expositio in Leviticum[12]. Si tratta di un testo a commento del sacrificio di comunione, nel quale san Bruno introduce un riferimento polemico a Berengario, che peraltro non sembra integrarsi molto nel contesto. Il sacrificio di comunione, con l’offerta di focacce, è letto sulla scansione dei tre giorni indicata da Lv 7,16s: «Ma se il sacrificio che uno offre è votivo e volontario, la vittima si mangerà nel giorno in cui verrà offerta, il resto dovrà essere mangiato il giorno dopo: ma quel che sarà rimasto della carne del sacrificio fino al terzo giorno dovrà bruciarsi nel fuoco». Bruno identifica il primo giorno con l’Antico Testamento, orientato a Cristo; il secondo con il Nuovo Testamento, nel quale in modo molto più manifesto Cristo è stato “immolato e creduto, mangiato e bevuto”; il terzo con il tempo presente, che “ è tenebroso, senza sole né luce, cieco ed erroneo, pieno di dottrine eretiche, che suonano come bestemmie”: e qui attacca il riferimento a Berengario, concluso con un’affermazione perentoria, costruita su 1Cor 11,29[13]: se chi indegnamente mangia e beve il corpo e il sangue del Signore, mangia e beve la propria condanna, «chi crederà agli eretici, non sarà accolto nel corpo della chiesa, ma sarà bruciato dal fuoco eterno».

Oltre questo accenno polemico, Bruno di Segni espone la dottrina eucaristica anche in un altro libro dell’Antico Testamento: l’Expositio in Exodum.

Nel commento al cap. 12 sulla Pasqua ebraica[14], l’autore spiega allegoricamente il significato della festa. Partendo dal fatto che la Pasqua si celebri il 14 di Nisan, Bruno legge allegoricamente il numero, come 10 + 4, dove il 10 si riferisce ai comandamenti (quindi all’Antico Testamento) e il 4 ai Vangeli (quindi al Nuovo Testamento): la passione di Cristo, significata dall’agnello, è significata per figuras et aenigmata nel Vecchio Testamento, ma veramente compiuta nel Nuovo: là Cristo è prefigurato, qui immolato; là è significato, qui immolato.

È, questo, un esempio notevole del metodo esegetico di san Bruno, che legge tutta la Sacra Scrittura nell’unità del progetto di Dio che ha in Cristo il suo vertice e il suo compimento[15]. In forza di questo criterio, Cristo è al tempo l’agnello per la sua innocenza e il capretto per la similitudine della carne con il peccato: il sacrificio a cui i due animali rimandano è quello della croce, che i giudei hanno dimenticato e che la chiesa invece assume assiduamente. Se vengono sacrificati tanto il capretto quanto l’agnello, è soltanto l’agnello che viene mangiato dal popolo, perché mangiare è essere trasformato in ciò che si mangia.

San Bruno specifica anche come mangiare l’agnello: non crudo, perché Cristo è stato sacrificato; non cotto in acqua, perché Cristo non è stato sacrificato di nascosto; l’agnello va cotto al fuoco: chi mangia questa carne cotta la fuoco, se crede che in essa è presente la vita e la riceve con grandissimo desiderio (avidissime), ricevendola comunica con la passione di Cristo. Davanti a questo mistero, il vescovo di Segni si chiede come possa avvenire questa trasformazione che permette, mangiando l’agnello, di comunicare alla passione di Cristo. La risposta è quella della tradizione: per la potenza della parola di Cristo, quella medesima potenza che trasforma il pane e il vino in corpo e sangue del Signore. «Se non è dato di capire – conclude l’Astense – è sufficiente credere. Molti si nutrono di queste carni più credendo che comprendendo. Mangino quelli che possono; quelli che non possono credano e saranno arsi dal fuoco della carità».

 

  1. I «Commentaria in Matthaeum»

Il motivo della fede torna in tutti i commenti al Nuovo Testamento a carattere eucaristico, quasi fosse la chiave di comprensione di un mistero che non solo resta al di là della comprensione dell’uomo, ma risulta anche difficile da presentare per carenza di termini e concetti adeguati ad esprimerlo. Per questo i commenti non si impegnano in disamine teologiche, ma procedono evocando ripetutamente il mistero, nel quale si entra solo mediante la fede.

Così, ad esempio, nel passo sull’istituzione dell’Eucarestia nei Commentaria in Matthaeum[16]. Gesù è presentato come il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech, il quale converte il pane e il vino nella sostanza del suo corpo e del suo sangue (in sui corporis et sanguinis substantiam convertit). Come avvenga questa trasformazione, san Bruno lo spiega con una formula pregnante: «Virtute ineffabili». Non si tratta, naturalmente, di una forza o capacità dell’uomo, ma di Dio stesso; forza ineffabile, inesprimibile, per la quale risultano inadeguati tanto i concetti che le parole umane.

Si percepisce, tuttavia, come il Nostro sia alla ricerca di uno strumentario lessicale e concettuale adatto ad esprimere il mistero eucaristico. In questa direzione va certamente l’applicazione del termine substantia al corpo e sangue del Signore, come anche l’accenno al modo in cui avviene la trasformazione delle specie, resa dall’avverbio «qualiter» e il fatto che chi si accosta alla mensa eucaristica, riceve «corporaliter» il corpo e il sangue di Cristo.

Ma la formulazione rivela più di qualche impaccio, se san Bruno afferma che unicamente colui che tutto può e sa, conosce anche come («qualiter») il pane e vino siano il corpo e il sangue del Signore. A chi crede è dato invece di sapere che tale conversione avviene in forza della parola, che Cristo ha pronunciato personalmente allora, o oggi attraverso i sacerdoti. Il motivo di tale conversione qualitativa risiede dunque nell’efficacia della sua parola: «tanta est ejus verbi virtus et efficacia, ut statim fiat quod dicitur».

L’insistenza sull’efficacia della parola di Cristo che opera la conversione delle specie eucaristiche, e non sullo Spirito, come nella tradizione orientale, determina una precisa conseguenza: la presenza del corpo e sangue del Signore già nell’ultima cena, al momento che Gesù pronuncia le parole sul pane e sul calice. Se, infatti, la parola fa immediatamente quello che dice, i discepoli hanno mangiato e bevuto il corpo e sangue del Signore, reso tale dalla parola che Gesù ha pronunciato[17]; allo stesso modo, attraverso la parola dei sacerdoti che ripetono quella parola efficace, il Signore è presente (manet) nella Chiesa integro e incorruttibile – cioè, come direbbe il concilio di Trento, «in corpo, sangue, anima e divinità» – e nel sacramento del pane e del vino è quotidianamente bevuto e mangiato.

Ma la presenza di Cristo nelle specie eucaristiche è dedotta più dall’esperienza di fede che da una qualsiasi argomentazione teologica: se il pane e il vino non si convertissero nella carne e nel sangue del Signore, i fedeli non potrebbero mangiarne e berne «corporaliter». Invece, «mutantur enim ista in illa; comeduntur et bibuntur illa in istis», dice san Bruno con una formula di rara efficacia, che sintetizza plasticamente il mistero eucaristico. E spiegando le parole sul calice, ricorre a formule altrettanto efficaci, messe sulle labbra stesse di Gesù: «Questo è il mio sangue che sta per essere versato, non altro questo, non altro quello, ma l’uno e l’altro unico e identico (non alius iste, non alius ille; sed unus et idemque et iste, et ille). Questo stesso sangue che domani sarà effuso da questo mio costato, e che voi adesso bevete e che vedete nel calice».

A riprova di questa spiegazione, Bruno di Segni ricorre a Eb 9,16s: «Dove c’è un testamento, è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive». Se la prima alleanza è stata stipulata con il sangue, non diversamente avverrà per la nuova, sigillata nel sangue di Cristo. Che poi l’alleanza nuova ed eterna sia definitivamente compiuta, lo dimostra la parola stessa di Cristo, quando afferma che non berrà più del frutto della vita fino al giorno in cui lo berrà nuovo nel regno di Dio. Ora – chiosa san Bruno – «il regno di Dio è la Chiesa, nella quale non si beve il vino vecchio, né si accetta la dottrina vecchia, perché si comprende la Scrittura spiritualmente, e non secondo la lettera». E continua: «Nella Chiesa Cristo beve con noi il vino nuovo, per il fatto che rimane con noi, in noi ha fame e sete, in noi si ciba e si disseta. Ma se Cristo stesso ha detto: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere” (Mt 25,35), questo non significa che sia lui personalmente ad avere fame e sete, a mangiare e bere». Piuttosto, è nella Chiesa che egli beve il vino nuovo, perché, rigettata la fede e la dottrina dei giudei, assume quella della Chiesa, che, bevendo di questo vino nuovo, ha una sola fede e una sola dottrina[18].

D’altra parte, il superamento dell’antica alleanza nella nuova è attestato anche dal vangelo di Luca, il quale ricorda due calici, che significano i due testamenti: l’Antico, giunto al suo compimento secondo la lettera; il Nuovo, che rende degni i discepoli, i quali hanno ricevuto il corpo e sangue del Signore, di salire il monte degli ulivi, cioè di lodare Dio e salire il monte della pace.

Un accenno alla dottrina eucaristica si trova anche nel commento al cap. 22 del Vangelo di Luca[19]. San Bruno prolunga l’affermazione di Gesù che ha desiderato ardentemente mangiare la pasqua con i suoi discepoli (cf Lc 22,14), asserendo che la sua intenzione è quella di dare compimento alle cose antiche e passare finalmente alle nuove. E se egli afferma che non berrà più del frutto della vite finché non venga il regno di Dio (cf Lc 22,15), questo avverrà quando nella Chiesa si comprenderà e si vivrà spiritualmente. Come si vede, il Nostro tutto comprende secondo l’opposizione tra la lettera e lo Spirito, l’antico e il nuovo, le promesse finalmente compiute.

Su questo registro si capisce l’ulteriore promessa di Gesù ai discepoli: «Così vi do il regno della Chiesa e dispongo che lo reggiate in vece mia, e sulla mia mensa mangiate il pane vivo che discende dal cielo e beviate il calice della nuova alleanza». Che cosa poi significhi che «questo può essere detto anche di quella mensa celeste, nella quale i santi con la sola contemplazione si cibano», non è semplice dire. I santi non sono certamente i credenti, come nel cristianesimo primitivo, ma quanti partecipano della gloria di Dio: il che fa concludere che esiste un’Eucarestia del cielo, che non consiste nel celebrare il sacramento, ma nel cibarsi del volto stesso di Dio; nel possedere in pienezza quella realtà che ai credenti quaggiù è data solo attraverso i simboli. In questa direzione va la citazione del Sal 16,15: «Io con la giustizia mi presenterò al tuo cospetto, mi sazierò quando si manifesterà la tua gloria».

 

  1. I Commentaria in Ioannem

 Tutto questo è ancora più evidente nei Commentaria in Ioannem[20], dove l’insistenza sulla fede come criterio di lettura del sacramento è per certi aspetti anche più marcata. D’altra parte, tutta la prima parte del capitolo 6 del IV Vangelo verte su Gesù pane di vita, al quale bisogna aderire mediante la fede: se «l’opera di Dio è credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29), ne consegue che «quanti non credettero in Cristo, non poterono compiere l’opera di Dio, né comprendere la legge di Dio, né ricevere il cibo spirituale: infatti, l’opera di Dio, cioè la sua parola, consiste proprio in questo cibo spirituale». A commento del v. 27 («procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, quello che il Figlio vi darà»), san Bruno chiarisce che «questo cibo che rimane per la vita eterna è la parola di Dio, dalla quale l’anima è alimentata e nutrita (pascitur et nutritur)». Chi lo riceve è reso come l’aquila descritta da Ezechiele e rappresentata da Giovanni, il quale è volato più in alto e più degli altri evangelisti è penetrato nel mistero di Cristo: questi è innalzato così in alto, che vola tra le nubi e sembra già penetrare il cielo.

Di qui a dedurre la superiorità di chi appartiene alla nuova alleanza e si è nutrito del «pane che dà la vita» rispetto a chi appartiene all’antica, rappresentata dalla manna, il passo è breve, e costituisce un registro tipico del Nostro. Tuttavia, il parallelismo istituito tra gli apostoli da una parte e Mosè e Aronne dall’altra non funziona perfettamente, perché la sorte degli uni e degli altri è la medesima: questi e quelli sono morti fisicamente, questi e quelli vivono quanto all’anima; morti sono invece quanti, vantandosi di essere loro progenie, non fanno le opere dei loro padri, ma  hanno mormorato, hanno adorato gli idoli, hanno provocato l’ira di Dio.

Si capisce in questa prospettiva l’invito con cui si apre il commento a Gv 6 a salire sul monte dietro a Gesù, a raggiungere cioè l’altezza del significato e la sublimità della natura: quanti sono nutriti da tali delizie, sono quelli che celebrano la festa e sono degni di ricevere la carne e il sangue di Cristo. Di questa comprensione non è capace il popolo giudaico, significato dal ragazzo: come questi porta con sé i cinque pani e non li mangia, così il popolo che porta con sé i cinque libri di Mosé, ma non li comprende[21].

In apertura della sezione propriamente eucaristica[22] – «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51), l’Astense spiega in modo circostanziato come il pane e il vino diventino corpo e sangue del Signore. Ecco il testo:

«Questo pane è la carne di Cristo, che è immolata sull’altare della croce per la vita del mondo. La Chiesa ancora la mangia, e perciò non muore, ma vive in eterno. Infatti il pane e il vino, posti sull’altare, sono santificati in forza della benedizione celeste per le parole (ad vocem) pronunciate dal sacerdote, e sono trasformati essenzialmente (essentialiter) nella carne e nel sangue di Cristo, affinché sia una sola e medesima essenza (essentia) la carne che è nata dalla Vergine e quella che viene dal pane. Questo sacramento tanto grande e ammirabile ebbe origine (coepit) nel momento in cui il nostro Salvatore, benedicendo il pane e il vino, disse: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo” e “Questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue” (Mt 26,26). Mai, infatti, qualcuno ha mangiato corporalmente la carne di Cristo prima di questo sacrificio. Né mai qualcuno avrebbe potuto mangiare la carne del Signore, se questo sacrificio non avvenisse corporalmente», cioè se il pane e il vino non fossero realmente trasformati nel corpo e sangue del Signore. Dunque, è mangiando il pane che si mangia la carne del Signore, e ciò che si mangia non diminuisce (come non era diminuita ma aumentata la quantità dei pani che Gesù aveva moltiplicato), perché «altro non si mangia se non questo pane che è trasformato sostanzialmente nella carne di Cristo in forza della sua benedizione. Questa mutazione, infatti – prosegue san Bruno – dipende dalla destra dell’Altissimo».

È questo che i Giudei non comprendono: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Una domanda del genere è tipica dell’uomo carnale, il quale non può percepire le cose di Dio (cf 1Cor 2,14) e cade in una comprensione distorta, come se fosse necessario uccidere Gesù, dividere in pezzi le sue carni mangiandole cotte o crude (torna qui la distinzione dell’Expositio in Exodum), e bere il suo sangue. Contro questa comprensione «secondo la carne e non secondo lo Spirito» (cf Gal 5,16ss) san Bruno torna anche più avanti, a commento del v. 63: «è lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla. Le parole che vi ho detto sono Spirito e vita». Se è vero che le cose comprese carnalmente conducono alla morte, mentre quelle comprese spiritualmente preparano alla vita eterna, è evidente che pensavano secondo la carne quanti pensavano che  si dovesse fare a pezzi la carne di Cristo e pensavano di doverla mangiare in questo modo. «Al contrario, comprendono spiritualmente questi misteri quanti sanno mediante la fede di nutrirsi e di bere il pane e il vino trasformati (commutata) divinamente nella carne e nel sangue di Cristo. Questo perché la carne, come anche il sangue non si manifestano come tali (in proprietate sui), e farebbe inorridire il solo pensare di sentirlo al gusto». Carne e Spirito equivalgono a intelletto carnale e intelletto spirituale, l’uno che non giova a nulla, l’altro che vivifica; il motivo sta nel fatto che lo Spirito permette di vedere il Figlio di Dio vivo e integro, il quale ascende dove prima si trovava in ragione della divinità. Ma come potrebbe ascendere Cristo, se venisse ucciso e fatto a pezzi?

L’orrore di cui parla san Bruno è un argine dottrinale ben preciso, che permette di inquadrare la sua dottrina eucaristica, esposta a commento del v. 53: «se non mangerete la carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita». «Di quanti mangiano la carne e bevono il sangue di Cristo, molti non hanno la vita eterna», dice il Nostro, e si riferisce a quanti indegnamente mangiano il pane e devono il calice del Signore, secondo il dettato di 1Cor 11,29. D’altronde, «anche molti di quelli che riceveranno la vita eterna, al momento non mangiano corporalmente in questo sacramento dell’altare la carne di Cristo, né bevono il suo sangue. Mangia in verità (revera)[23] la carne di Cristo e beve il suo sangue solo colui che partecipa all’altare in modo da essere congiunto e unito al Figlio di Dio al punto di non potersi più separare da lui. Cos’è, infatti, mangiare, se non aderire inseparabilmente?», si domanda san Bruno, il quale porta a conferma il processo di assunzione dei cibi, che dopo la digestione sono trasformati sostanzialmente e inseparabilmente nella nostra carne e nel nostro sangue. Sul piano della partecipazione all’Eucarestia, chi mangia la carne e beve il sangue del Figlio dell’Uomo come si conviene è così congiunto e unito a lui, che è trasformato completamente in lui ed egli rimane in chi lo riceve. E cosa significhi mangiare la carne e bere il sangue di Cristo sicut talem cibum, san Bruno lo spiega a seguire: «è indegno di ricevere la carne del Signore chi non persevera nel suo amore».

In questa linea san Bruno spiega il v. 57: «Come il Padre che ha la vita ha mandato me, ed io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me». Si mangia la carne e si beve il sangue di colui che è vivo, immortale e che non può morire, in ragione della divinità (non propter matrem, sed propter Patrem, id est propter divinitatem). Allo stesso modo, anche chi mangia di lui, che è via, verità e vita, non sarà soggetto alla morte, ma vivrà presso di lui.

Il vertice della dottrina eucaristica sta forse in quel propter, che dice condizione di vicinanza a Cristo (“vicino a”, “presso” di lui), ma esprime anche un aspetto di causalità: unicamente “per” Cristo e “in ragione” di quanto egli ha fatto l’uomo, è innalzato alla comunione trinitaria e partecipa alla vita eterna. D’altra parte, come potrebbe morire colui che ha sempre la vita? Questi è quel pane così grande che discende dal cielo, e che mai può essere paragonato alla manna, perché dona la vita eterna. Così sarà chi riceve il pane della vita.

 

  1. Il libro IV delle Sententiae: in Coena Domini

Questi gli interventi nell’opera di san Bruno che presentano la dottrina eucaristica, ripresentata nel cap. IX delle Sententiae, liber IV, che per larghi tratti riprende alla lettera l’Expositio in Exodum e i Commentaria in Ioannem. Pur trattandosi di un trattato dogmatico, non di danno molti ampliamenti alla riflessione rispetto ai commenti esegetici, e gli elementi di novità sono da ricercare nell’articolazione dei brani precedenti, ma anche nella rielaborazione del commento al IV Vangelo, perché intreccia l’esegesi di Gv 6 sul pane di vita e di Gv 13 sulla lavanda dei piedi.

Prima di ripetere il commento di Es 12, l’Astense inquadra il fatto: il primo giorno degli azzimi, quando si doveva mangiare la Pasqua, il Signore mandò in città davanti a sé Pietro e Giovanni a preparare il luogo e la cena. Questa cena, annota san Bruno, è la fine dell’Antico Testamento e l’inizio del Nuovo; a dimostrazione di questo, il Signore stesso avrebbe distinto la cena in due momenti, indicati rispettivamente dai due calici a cui si riferisce l’evangelista Luca, il primo che rimanda all’Alleanza mosaica, il secondo che si riferisce alla nuova ed eterna Alleanza nel sangue di Cristo.

Dopo la descrizione della prima cena, che è una ripetizione alla lettera del commento all’Esodo, il passaggio al secondo momento della cena – quello che riguarda la nuova Alleanza nel sangue di Cristo – è introdotto da un’annotazione interessante: Cristo, dopo aver mangiato l’agnello pasquale con i suoi discepoli, nel rispetto della pasqua ebraica, volle passare al vero sacramento della Pasqua, per fare in veritate nel secondo momento della cena ciò che nel primo aveva fatto in figura. Certo, anche prima – cioè con la prima coppa – Gesù aveva agito «secondo l’ordine di Melchisedech», essendo egli l’autore di ambedue le alleanze; riguardo alla prima, si mostra come colui che porta a definitivo compimento il sacerdozio veterotestamentario (alterum sacerdotium complendo finivit), riguardo alla seconda, come colui che istituisce per sempre il sacerdozio della nuova alleanza (alterum in aeterno fieri et manere constituit). Come Cristo istituisca il sacerdozio della nuova alleanza, Bruno di Segni lo dimostra richiamando la lavanda dei piedi, che già aveva commentato nei Commentaria in Ioannem[24]. Il gesto di Gesù è finalizzato, secondo il Nostro, a produrre nei discepoli una condizione di purezza per essere degni di accedere a un sacramento di tale e tanta grandezza; condizione necessaria anche per noi, secondo il dettato di 1Cor 11,29, che mangia la propria condanna chi si avvicina indegnamente alla mensa del Signore. Per cui l’uomo, prima di accostarsi all’Eucarestia, deve sempre lavarsi i piedi e la coscienza[25], come richiede il comando e l’esempio di colui che, come Maestro e Signore, così si è comportato[26].

A questo punto, con un riferimento inesatto a Gv 13,13[27], il testo introduce il riferimento alle parole sul calice, secondo il racconto dell’istituzione proposto dai Sinottici, non documentato nella redazione di Giovanni. Con un procedimento di composizione delle fonti, san Bruno suppone che, dopo la lavanda dei piedi, Gesù, dopo aver affermato che non avrebbe più bevuto del frutto della vite se non nuovo nel regno di Dio, esprimendo in questo modo il superamento delle cose vecchie in favore della realtà definitiva, abbia pronunciato le parole sul secondo calice, così come le riferisce l’evangelista Luca: «E preso un calice, rese grazie e disse: “prendetelo e distribuitelo tra voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22,17.20). Questa benedizione ha la sua spiegazione in Gv 6,54 – «Se non mangerete la carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita» – che molti discepoli ritennero dura, e si ritirarono scandalizzati pensando di dover mangiare effettivamente le carni – cotte o crude! – del Figlio dell’Uomo. Ma costoro erano carnali e come tali capivano le parole di Gesù.

Per contro, basta guardare come Gesù siede a mensa con i suoi discepoli: «mangia e beve con loro, e benché nulla patisca nelle sue membra, i suoi discepoli mangiano la sua carne e devono il suo sangue». Questo fa la potenza di Dio (Hoc facit potentia divinitatis), che si manifesta attraverso la parola pronunciata sul calice, come sul pane; parola che, come quella della creazione, fa sempre quello che dice. Dice, infatti, l’Astense: «tanta fu la potenza della sua parola, che subito il pane è mutato in carne e il vino in sangue». Per spiegare questa trasformazione, san Bruno riprende il parallelismo con il processo di assimilazione del cibo, insistendo fino a ripetersi: come il cibo e la bevanda è trasformata nella carne e nel sangue di chi mangia e beve, allo stesso modo «anche questo pane e questo vino consacrati sull’altare, al comando e per il potere della benedizione celeste, sono cambiati [nella carne e] nel sangue di Cristo», quelli che egli ha ricevuto dalla Vergine, perché Cristo non ha altra carne che quella. «Se dunque la tua digestione ha potuto cambiare il cibo che mangi nella tua stessa carne, come non potrà la benedizione celeste mutare il pane e il vino in corpo e sangue di Cristo?»; e poco più avanti: «se questo può accadere alla carne mortale, quanto più alla carne del Salvatore, già glorificata nella resurrezione?».

Tutto questo è mirabile, come mirabile è il fatto che ogni giorno in tutto il mondo il pane sia mutato nella carne di Cristo, e i fedeli di Cristo se ne nutrano senza che il corpo di Cristo aumenti quando il pane sia consacrato, né diminuisca quando venga mangiato. Come, d’altra parte, avvenne per la moltiplicazione dei pani narrata in Gv 6, dove cinque pani bastarono a saziare cinquemila uomini, e le ceste avanzate potevano bastare a Dio per nutrire tutti gli uomini per la durata di questo mondo. «Tanta è la potenza di Dio e tanto vale la benedizione di Cristo», dice san Bruno, il quale, dopo aver rammentato un’ultima volta le parole dell’istituzione, conclude: «A chi crederemo, se non crediamo a Cristo? Dove si dà una tale autorità, non servono altri argomenti!».  

 

  1. Contestualizzazione storica

 Questi i passaggi dell’opera di san Bruno sull’Eucarestia. Quando si voglia rileggere criticamente questo insieme di dati, bisogna guardarsi dal rischio di interpretazioni sbilanciate, soprattutto dalla voglia di attribuire all’Astense una dottrina eucaristica che troverà la sua elaborazione compiuta solo molto più tardi, nella grande Scolastica. Semmai, la teologia di san Bruno si può inquadrare come una faticosa ricerca di soluzione al problema posto dalle teorie di Berengario; o – dal momento che il richiamo all’arcidiacono di Tours compare una sola volta, nel commento al Levitico – come l’attestazione di una fase di sviluppo della dottrina, che si dibatte nel tentativo, ancora incerto e incompiuto, di individuare termini adeguati a dire la «realtà» dell’Eucarestia in un mutato contesto ecclesiale e teologico.

Nei suoi scritti, infatti, entrano termini come substantia, essentia e soprattutto gli avverbi essentialiter, realiter, corporaliter, che annunciano ma non anticipano ancora la dottrina della transustanziazione[28]. Ma l’impianto della sua argomentazione è quello dei Padri della Chiesa, dai quali Bruno di Segni eredita modelli e termini, che tuttavia non hanno più la stessa efficacia a causa di un vissuto ecclesiale radicalmente mutato.

In effetti, al tempo di san Bruno è venuto a mancare un elemento fondamentale, si potrebbe dire l’architrave che sorregge la dottrina eucaristica dei Padri, vale a dire la stretta correlazione dell’Eucarestia con la Chiesa. Si può cogliere questa prospettiva nel famosissimo sermo 272 di sant’Agostino:

«Ciò che voi vedete è il pane e il calice: ve lo assicurano i vostri stessi occhi. Invece, secondo la fede che si deve formare in voi, il pane è il corpo di Cristo, il calice è il sangue di Cristo […]: questo pane come può essere il suo corpo? E questo calice, o meglio ciò che è contenuto nel calice, come può essere il sangue suo? Queste cose, fratelli, si chiamano sacramenti proprio perché in essi si vede una realtà  e se ne intende un’altra. Ciò che si vede ha un aspetto materiale, ciò che si intende produce un effetto spirituale. Se vuoi comprendere il mistero del corpo di Cristo, ascolta l’apostolo che dice ai fedeli: ‘Voi siete il corpo di Cristo e sue membra’ (1Cor 12.27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: Il Corpo di Cristo, e tu rispondi: Amen. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen. Perché dunque [il corpo di Cristo] nel pane? Non vogliamo qui portare niente di nostro; ascoltiamo sempre l’apostolo, il quale, parlando di questo sacramento, dice: ‘Pur essendo molti, formiamo un solo pane, un solo corpo’ (1Cor 10,17). Cercate di capire ed esultate. Unità, verità, pietà, carità. ‘Un solo pane’: chi è questo unico pane? ‘Pur essendo molti, formiamo un solo corpo’. Ricordate che il pane non è composto da un solo chicco di grano, ma da molti. Quando si facevano gli esorcismi su di voi venivate, per così dire, macinati; quando siete stati battezzati, siete stati, per così dire, impastati; quando avete ricevuto il fuoco dello Spirito Santo siete stati, per così dire, cotti. Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete. Questo disse l’apostolo riguardo al pane. E ciò che dobbiamo intendere del calice, anche se non è stato detto, ce l’ha fatto capire abbastanza. Come infatti, perché ci sia la forma visibile del pane , molti chicchi di grano vengono impastati  fino a formare un’unica cosa – come se avvenisse ciò che la Sacra Scrittura dice dei fedeli: ‘Avevano un’anima sola e un cuore solo protesi verso Dio’ (At 4,32) –, così è anche per il vino. Molti acini sono attaccati al grappolo, ma il succo degli acini si fonde in un tutt’uno. Cristo Signore ci ha simboleggiati in questo modo e ha voluto che noi facessimo parte di lui, consacrò sulla sua mensa il sacramento della nostra pace e unità. Chi riceve il sacramento dell’unità e non conserva il vincolo della pace, riceve non un sacramento a sua salvezza, ma una prova a suo danno».

Come si può vedere, l’Eucarestia sta al fondamento stesso dell’identità della Chiesa, in forza della correlazione «un solo pane – un solo corpo». Correlazione che per i Padri, come diceva H. De Lubac,  non si riduce mai a una «vaga analogia estrinseca»[29], ma assume un vero e proprio nesso di causalità: «l’effetto ultimo, la ‘verità’ della comunione sacramentale era di comunicare con la Chiesa»[30]. Ricevere l’Eucarestia era per la Chiesa antica espressione e condizione dell’incorporazione alla comunità ecclesiale. Chi non vive nella – e alle condizioni della – communio ecclesiale non può accostarsi alla comunione eucaristica, perché non vive come membro della Chiesa-Corpo di Cristo. In questa linea si capisce l’esortazione di Ignazio di Antiochia alla Chiesa di Filadelfia: «Preoccupatevi di attendere ad una sola eucarestia.  Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice dell’unità nel suo sangue, uno è l’altare come uno solo è il vescovo con il presbiterio e i diaconi, miei conservi»[31].

Pur con tutta la difficoltà ad inquadrare adeguatamente quella prassi eucaristica, per la frammentarietà e la disparità delle fonti, ma anche per la varietà dei modelli celebrativi, è possibile isolare alcuni elementi certi.

L’Eucarestia, secondo la Didaché, è costituita del pane e del vino «eucaristizzati», che diventano per il battezzato che li riceve un nutrimento spirituale con effetti ammirabili[32]. Per i Padri è fuori di ogni dubbio che pane e vino sono «il corpo del Signore» e «il suo sangue prezioso»[33]: l’affermazione, tuttavia, non è accompagnata da una spiegazione di come avvenga tale trasformazione, benché le anafore delle diverse tradizioni contengano sempre almeno l’invocazione dello Spirito o le parole dell’istituzione. Come a dire che il pane e il vino sono «eucaristizzati» o dalla Parola, in forza della ripetizione efficace delle parole stesse di Gesù, o dallo Spirito, in forza dell’epiclesi pronunciata sul pane e sul vino. Naturalmente, molte anafore attestano sia l’epiclesi che l’anamnesi; ma, tendenzialmente, di può dire che l’Oriente ha privilegiato l’azione dello Spirito – il «fuoco» nel calice – a differenza dell’Occidente che ha marcato piuttosto l’efficacia delle parole di Gesù ripetute dal sacerdote.

In un caso o nell’altro, il pane e il vino «significano» il corpo e il sangue del Signore. Va in questa direzione l’affermazione di Tertulliano, secondo il quale Gesù, «preso il pane e distribuitolo tra i suoi discepoli, dicendo “questo è il mio Corpo”, lo rese (fecit) suo corpo, vale a dire la figura del suo corpo (figura corporis sui[34]. Nella teologia patristica, un’espressione del genere non contrasta in alcun modo il realismo eucaristico: pane e vino sono «realmente» il corpo del Signore che pende dalla croce e il sangue che sgorga dal suo costato. Da dove deriva questa certezza? Dalla fede, come ancora si esprime Cirillo di Gerusalemme nella catechesi mistagogica sull’Eucarestia: «La fede ci assicura che, secondo la dichiarazione del Maestro, questi [il pane e il vino] sono il suo corpo e il suo sangue, perché tutto ciò che lo Spirito tocca è santificato e trasformato»[35]. E s. Agostino sembra fargli eco, quando asserisce che è pensare secondo la carne attribuire a Gesù l’intenzione di dare a quanti credevano in lui la sua carne in pezzi[36].  I padri pensano l’Eucarestia, come ogni altro aspetto della historia salutis, dentro l’idea dell’admirabile commercium tra Dio e gli uomini, che ispira tutta la loro teologia simbolica: «Se, in effetti, il Verbo è veramente diventato carne, e se noi veramente consumiamo il Verbo fatto carne nell’alimento del Signore, come non pensare che egli dimori in noi secondo la natura, lui che, nato nella carne, assunse in modo ormai inseparabile la nostra natura di carne e mescolò la sua natura umana alla natura eterna nel mistero della carne alla quale noi dobbiamo comunicare?»[37]. Così l’Eucarestia è compresa, nella prospettiva di una simbolica ecclesiale, come presenza del Signore alla sua comunità, riunita a celebrare la salvezza di Dio; come nutrimento spirituale, «farmaco di immortalità» per l’uomo che partecipa ai divini misteri. Questa concezione è tanto realista, quanto simbolica: è un realismo simbolico, che crede – perciò lo afferma – nel cambiamento del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore, malgrado la testimonianza contraria dei sensi: sull’altare è «realmente» presente il corpo del Signore che pende dalla croce e il sangue che sgorga dal suo costato nella figura del pane e del vino.

Questa prassi eucaristica, così legata alla celebrazione dell’Eucarestia in die dominico, è del tutto smarrita nel Medioevo, dove alla faticosa partecipazione del popolo cristiano alla liturgia fa da pendant la moltiplicazione delle messe votive senza concorso di popolo, soprattutto nei monasteri. Una prassi del genere non permetteva più la stretta identificazione tra Eucaristia e Chiesa, che conferiva realismo alla teologia simbolica dei Padri.

D’altronde, le difficoltà che la dottrina eucaristica dei Padri comportava erano state avvertite in Oriente da un teologo della statura di Giovanni Damasceno: «il corpo e il sangue di Cristo – egli asseriva – non sono una figura del corpo e del sangue di Cristo, ma il corpo divinizzato dello stesso Salvatore, dal momento che il Signore ha detto: “Questo è il mio corpo”, e non: questa è la figura del mio corpo; “Questo è il mio sangue”, e non: questa è la figura del mio sangue»[38]. Il termine figura aveva assunto un carattere unicamente simbolico, e non poteva più esprimere la «realtà» del mistero eucaristico.

In Occidente la difficoltà emerge durante il IX secolo, come attesta la prima divaricazione sulla dottrina eucaristica che rimanda ai nomi di Pascasio Radberto e di Ratramno, il primo abate e l’altro monaco dell’abbazia di Corbie[39]. Il primo sostiene la piena identità tra il corpo di Cristo nato dalla Vergine, crocifisso e risorto e il corpo di Cristo eucaristico, che contiene il corpo e il sangue di Cristo in veritate e rende presente il sacrificio di Cristo sulla croce in figura; il secondo, il quale nega  l’identificazione del corpo di Cristo eucaristico con il corpo di Cristo nato dalla Vergine, sostiene che nell’Eucarestia il corpo e il sangue di Cristo sono presenti unicamente in figura, vale a dire in una forma della realtà che rinvia a un’altra, e non come la realtà stessa, per cui il credente riceve il corpo di Cristo in mysterio e non in veritate. In altre parole, l’Eucarestia è una realtà spirituale comunicata mediante segni fisici – il pane e il vino – e realizza una comunione con Cristo di natura solo spirituale – che passa, cioè, attraverso la fede – e non naturale. Quanto la questione sia delicata si può capire se si insiste sull’unione «naturale» con Cristo: l’analogia con la digestione del cibo che san Bruno propone mette in evidenza tutta la difficoltà, perché, mentre fa propendere per una unione «naturale» con Cristo, sembra svuotarla di tutta la sua forza «spirituale». Manca ancora l’idea di una unione «sacramentale», a cui la teologia posteriore perverrà, dopo la disputa berengariana che l’aveva costretta a misurarsi con la dimensione simbolica dell’Eucarestia.

Bisogna comunque ricordare che nel sec. IX le due posizioni non sfociarono in una vera e propria controversia; aprirono però la strada a due prospettive differenti, l’una più ancorata alla Tradizione, che continuava a riaffermare l’identità tra il corpo di Cristo sulla croce e nell’Eucarestia, e quella che si potrebbe definire «simbolica», la quale, negando sempre più perentoriamente l’identificazione, sfocerà nelle posizioni di Berengario di Tours, per il quale è insensato e blasfemo sostenere che dopo la consacrazione il corpo e il sangue di Cristo siano fisicamente presenti nel pane e nel vino posti sull’altare: l’uno è unicamente sacramentum, cioè figura, ombra, visibilis forma dell’altro, che è invisibilis gratiae, res sacramenti, cioè il Cristo risorto e glorificato.

 

Conclusione

 Si dovrà aspettare san Tommaso per rispondere, con le stesse categorie aristoteliche, alla questione introdotta da Berengario. Prima, la teologia ha dovuto percorrere un lungo cammino di avvicinamento, segnato anche dalla polemica contro la simonia e il nicolaitismo, che negava la validità dell’Eucarestia celebrata da un ministro indegno, e perciò anche l’efficacia delle parole che pronunciava, dalle quali dipendeva – secondo la tradizione latina, la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue del Signore. Si percepisce il travaglio di questa ricerca nel dettato del concilio Lateranense IV, che afferma:

«Una è la chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno assolutamente si salva e nella quale lo stesso Gesù Cristo è sacerdote e vittima; infatti, il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente (veraciter continentur) nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane e il vino sono transustanziati (transsubstantiatis) nel corpo e nel sangue per divino potere; cosicché, per adempiere il mistero dell’unità, noi riceviamo da lui ciò che lui ha ricevuto da noi. Questo sacramento non può assolutamente compierlo nessuno, se non il sacerdote che sia stato validamente ordinato, secondo i poteri della chiesa che lo stesso Gesù Cristo concesse agli apostoli e ai loro successori»[40].

Bruno di Segni è un testimone di questo cammino e di questo travaglio. La sua teologia eucaristica riverbera il linguaggio e le idee della patristica latina, soprattutto di sant’Agostino, di cui conosceva bene gli scritti, come appare dalle sue opere esegetiche. D’altronde, è lui stesso a dichiarare, nell’Expositio in Leviticum, di non credere alle argomentazioni, ma alla fede dei santi e alle auctoritates. Il vescovo di Segni non appare, tuttavia, un mero ripetitore: l’analisi dei testi ha lasciato emergere più volte espressioni e termini più attinenti alle problematiche del suo tempo. Cade, ad esempio, il nesso dell’Eucarestia con la comunità che celebra, e la mutua implicazione dei significati che accompagnano la formula «corpo di Cristo», riferita al Cristo nato dalla Vergine, all’Eucarestia e alla Chiesa, perde forza. Ciò che importa a san Bruno è ribadire in termini inequivocabili l’identità dell’Eucarestia con il Cristo glorificato, al punto da assumere – lui che rifiutava gli argomenta – il termine tipicamente filosofico «essentia», e l’avverbio parallelo «essentialiter» per dire che la benedizione divina in forza delle parole pronunciate dal sacerdote trasforma essenzialmente (essentialiter commutantur) il pane e il vino nel corpo e sangue di Cristo nato dalla Vergine.

Non stupisce certo che san Bruno conferisca un’efficacia tanto grande alla parola, sia quella di Cristo come quella del sacerdote, ministro dell’Eucarestia: una concezione del genere non soltanto è in linea con la teologia latina, che insiste quasi esclusivamente sull’anamnesi a scapito dell’epiclesi; può essere intesa anche come espressione di colui che ha fatto della frequentazione delle Scritture il suo cibo quotidiano ed esalta perciò la forza della Parola che fa quello che dice. La prospettiva è tipicamente cristologica: è il Cristo glorioso che pronuncia mediante il celebrante le stesse parole sul pane e sul calice che egli stesso aveva pronunciato nel corso dell’ultima cena.

Al di là della dottrina eucaristica, che non giustifica certo il titolo di «dottore eucaristico», l’elemento di maggior novità nelle opere di Bruno di Segni è forse la marcata caratterizzazione biblica: non solo e non tanto perché i suoi testi sono commenti ai passi della Scrittura sull’Eucarestia. Più in profondità – e qui si rivela l’esegeta – l’Astense manifesta la tendenza a stabilire un continuo parallelismo tra le Scritture e la dottrina eucaristica; quasi che, mancando ancora un vocabolario appropriato per spiegare il mistero eucaristico in sé, la sola possibilità di rendere la grandezza del sacramento sia l’insistenza sul rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, lettera e Spirito, promessa e compimento. Anche quando si applica alla spiegazione della dottrina, Bruno di Segni è e rimane un esegeta, che parte dalle Scritture non solo per illustrarne il significato, ma anche per spiegare tutta la storia della salvezza sulla base del compimento di tutte le promesse in Cristo. La grandezza dell’Eucarestia emerge, così, dalla distanza tra le figure veterotestamentarie e il loro adempimento in Cristo, il quale supera l’antica alleanza, introducendo i discepoli che ricevono il suo corpo e il suo sangue nella condizione di partecipare al regno di Dio.

Non a caso, il registro su cui torna in continuazione il Nostro è la superiorità incomparabile dell’Eucarestia rispetto alla manna. In fondo vale anche per il pane eucaristico il principio che regola tutta l’esegesi di Bruno: «Si ergo litterae intelligentia tantum rutilat, quid facies intelligentia spiritus?»[41].

 

[1] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine», 7 ottobre 2004: Il Regno Documenti 49 (2004) 956, 590.

[2] Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Anno dell’Eucarestia. Suggerimenti e proposte, Roma, 15 ottobre 2004: Il Regno Documenti 49 (2004) 956, 600.

[3] Su Bruno di Segni, cf. R. Grégoire, Bruno de Segni. Exégète médieval et théologien monastique, Spoleto 1965 ; B. Navarra, San Bruno Astense, Vescovo di Segni e avate di Montecassino, Segni 1980; F. Cipollini (cur.), Bruno di Segni (+1123) e la chiesa del suo tempo. Giornate di studio (Segni, 4-5 novembre 1999), Venafro 2001.

[4] Vita S. Bruni seu Brunonis ab Anonimo descripta, Venetia 1651, ripresa nella traduzione di B. Navarra, riportata in Ibid., 242-245.

[5] DS 700; in un precedente sinodo romano (1059) Berengario aveva già sottoscritto una dichiarazione redatta da Umberto di Silvacandida, che conteneva espressioni di un realismo ben più forte di quella del 1079, che insisteva sul fatto che nell’Eucarestia il pane e il vino posti sull’altare dopo la consacrazione il vero corpo e sangue del Signore e non solo un sacramento che il sacerdote spezza e i fedeli frantumano sotto i denti in veritate e non soltanto nel sacramento.

[6] Pietro Aldobrandini (beato), monaco di Vallombrosa, morto nel 1089, è soprannominato Igneo perché, in uno scontro con il vescovo simoniaco di Firenze, Pietro di Pavia, sostiene l’accusa sottomettendosi alla prova del fuoco: in una specie di ordalia, passa illeso tra le fiamme di due roghi, dimostrando agli occhi del popolo la verità dell’accusa contro il vescovo eretico. Creato cardinale vescovo di Albano da Gregorio VII, fu uno dei campioni della riforma e uno degli uomini di fiducia del papa, svolgendo diverse legazioni in Italia, Francia e Germania. Cf G. Miccoli, Pietro Igneo. Studio sull’età gregoriana, Roma 1960. 

[7] Che Bruno si trovi a Siena lo dice lui stesso nel prologo all’Expositio in Apocalypsim; il perché non può che essere oggetto di congetture. Nel prologo all’Apocalisse egli dice di aver già scritto il commento al salterio gallicano (perduto) per Ingone, vescovo di Asti (per cui si deve supporre una qualche relazione, non meglio specificabile, con la chiesa di Asti, dove potrebbe essere stato ordinato), e il commentario al Cantico dei Cantici per i canonici di Siena, cum quibus et ipse qualiscunque victitabam. Cosa significa questa annotazione? Il testo non è di facile traduzione, per la difficoltà presentata distintamente da ipse, qualiscunque e dal verbo victito. A chi si riferisce ipse? A Bruno stesso, se il verbo è victibabam, benché la formula con ipse per indicare il soggetto che parla, per quanto possibile, sia eccezionale. Se si accetta questa lezione (se si scegliesse la lezione victitabat, bisognerebbe riferire il canonicato a Ingone di Bercledo, vescovo di Asti), bisogna chiedersi perché Bruno senta il bisogno di introdurre nel testo una così forte sottolineatura del soggetto narrante («io stesso»). La scelta, peraltro rinforzata da et (anche), potrebbe rimandare a una situazione straordinaria: anche Bruno vivrebbe con i canonici di Siena, senza essere un canonico effettivo di quella chiesa, un membro stabile del capitolo, come forse suggerisce la formula qualiscunque canonicus; perché dovrebbe dire di condurre la vita con i canonici come un canonico qualsiasi, se la sua condizione era quella? Più verosimile che egli si trovasse a Siena di passaggio, o in una situazione provvisoria, associato al capitolo come un qualsivoglia canonico, probabilmente facendo vita in comune con gli altri e servendoli (guadagnandosi da vivere) con i suoi commenti alla Scrittura. Potrebbe insinuare questa soluzione il verbo victito, che si traduce con “vivere” (se usato in senso assoluto), ma anche con “vivere di/sostentarsi con” (se usato intransitivamente, con l’ablativo).

[8] In Leviticum VII: PL 164, 404 C.

[9] De sacrificio azymo ad Leonem monachum, PL 165, 1085-1090.

[10] De Sacramentis Ecclesiae, mysteriis atque ecclesiasticis ritibus, PL 165, 1089-1110.

[11] Sententiae, Liber IV, cap. IX: «In Coena Domini», 1001-1007.

[12] Expositio in Leviticum, PL 164, 377-464.

[13] La citazione di 1Cor 11,29 ricorre in tutti i testi a commento del mistero eucaristico, quasi fosse il leit-motiv che li lega insieme: degno dell’eucarestia è chi si mantiene nella fede della chiesa, per la quale il pane e il vino sono realmente il corpo e il sangue del Signore.

[14] Expositio in Exodum, cap. XII: PL 164, 253-262.

[15] Per il metodo esegetico del Medioevo, cf. H. de Lubac, Exégèse mediévale. Les quatre sens de l’Ecriture, Paris 1959.

[16] Commentaria in Matthaeum, CIV: PL 165, 286-308.

[17] Difficilmente una corretta dottrina eucaristica accetterebbe oggi una tale posizione, dal momento che vede l’Eucarestia come sacramento del mistero pasquale. Tuttavia, si può ritrovare una concezione simile nella recente enciclica Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II (17. 04. 2003): «Gli Apostoli, accogliendo nel cenacolo l’invito di Gesù: “prendete e mangiate… Bevetene tutti” (Mt 26,26s), sono entrati, per la prima volta, in comunione sacramentale con lui» (EdE 21).

[18] Il testo suona: Quasi enim de uno vino bibimus, dum unam fidem et doctrinam tenemus. La traduzione deve fare i conti con il de, che indica moto verso il basso, quindi, in questo caso, provenienza, derivazione, origine: quindi, la Chiesa nasce dal fatto di bere questo unico vino nuovo, che la costituisce in Regno di Dio. Ma perché quasi? Probabilmente per marcare il fatto che questo bere avviene non in un solo momento, ma nelle tante messe che vengono celebrate, nelle quali la Chiesa riceve però il medesimo sangue di Cristo dato nell’ultima cena ed effuso sulla croce.

[19] Commentaria in Lucam, XLVIII: PL 165, 444. San Bruno non commenta invece il passo parallelo del Vangelo di Marco. Nessun accenno eucaristico nemmeno nell’esegesi di Lc 24,30 dove si dice che i discepoli di Emmaus riconnobero Gesù allo spezzare il pane.

[20] Commentaria in Joannem, XVI-XIX: PL 165, 493-503.

[21] L’antitesi antico-nuovo popolo di Dio, Sinagoga-Chiesa, è una delle più ricorrenti in san Bruno (non diversamente dalla letteratura del tempo). Il tema costituiva un luogo comune della mentalità medievale che, includendo le comunità giudaiche nella società cristiana, ne marcava continuamente la differenza, sul piano sociale con il ghetto, su quello teologico-letterario con la prospettiva del compimento cristiano delle promesse, che svuota di significato l’esistenza della Sinagoga (configurata a volte in termini spregiativi) in favore della Chiesa.

[22] § XVIII: PL 165, 499-500.

[23] Mi pare eccessivo, dato lo sviluppo iniziale della dottrina eucaristica in questo periodo, tradurre l’avverbio revera con “realmente”: “in verità”, cioè secondo la verità che la Chiesa crede, mi sembra più vicino al senso di tutto il testo.

[24] Commentaria in Ioannem, XXXVIII: PL 165, 555-561.

[25] Cosa intenda per i lavare i piedi, San Bruno lo spiega nel commento al vangelo di Giovanni: «Et ego quidem de hoc pedes, sensus corporis et animae affectiones significari puto. Ipsi enim nos ferunt extra nos, et ipsi frequenter maculantur in nobis. Portat te visus ad mulieris speciem contemplandam: ibi maculatur ; indiget lavatione. Portat te auditus ad audiendam detractionem, et consilium vanitatis : ibi maculatur; indiget lavatione. Portat te gustus ad crapulam, et ebrietatem: ibi maculatur; indiget lavatione. Sic et aliis. Isti igitur sunt illi pedes, quos etiam illos, qui jam loti et baptizati sunt, frequenter lavare oportet. Sed quid de animae affectionibus dicam, cum ipsis quoque bonis actionibus superbia, et vana gloria saepe se immesceat ? Et hic igitur lavatio necessaria est»: Commentaria in Ioannem, XXXVIII : PL 165, 556-557.

[26] Il richiamo a Gv 13,13 non sembra rispondere all’intenzione del testo evangelico, che si riferisce all’amore reciproco tra i discepoli, non alla purificazione dai peccati a cui ogni discepolo sarebbe personalmente tenuto. Ma san Bruno non commenta la Bibbia per se stessa, ma per quanti lo ascoltano e adegua la sua esegesi alle esigenze della comunità alla quale indirizza la sua parola. Come a dire che la dimensione ecclesiale è prioritaria rispetto a qualsiasi altra lettura del testo.

[27] Il Migne riferisce a Gv 13,13 la citazione «Non bibam amodo de hoc genimine vitis, donec bibam illud vobiscum novum in regno Dei». L’edizione del Bruni non contiene la numerazione delle citazioni, che non potevano esistere nel commento di san Bruno, risalendo la numerazione del testo al XVIII secolo. Si tratta quindi di una svista del redattore. Tuttavia, il problema rimane, perché il testo parla di «paucis verbis interjectis» o, secondo il codice vaticano, di «paucis verbis interpositis», il che farebbe supporre che la citazione compaia nel seguito del capitolo 13 di Giovanni, che invece corrisponde a Mt 26,29, peraltro non alla lettera. Questo fatto forse spiega la difficoltà: come tutti gli antichi, san Bruno doveva citare il testo a memoria, il che poteva spiegare una sovrapposizione di testi o una collocazione impropria di una qualche citazione.

[28] A mio parere bisogna essere cauti a vedere nelle posizioni di san Bruno delle anticipazioni vere e proprie della dottrina della transustanziazione, la quale si sviluppa sulla base di uno schema tipicamente aristotelico. Il rifiuto netto della teoria di Berengario era anche rifiuto dell’aristotelismo, guardato con sospetto nella teologia prima di Tommaso d’Aquino. Solo a condizione di supporre una contestazione di Berengario sullo stesso schema di pensiero, si potrebbe ammettere questa ipotesi: ma Bruno di Segni si muove in uno schema di pensiero biblico con cadenze platoniche, secondo gli schemi della teologia monastica, erede dei Padri della Chiesa.

[29] H. De Lubac, Cattolicismo, Milano 1978, 64.

[30] Ibidem, 65.

[31] Ignazio di Antiochia, Ai Filadelfesi, IV.

[32] Didaché, IX, 5.

[33] Costituzioni Apostoliche, II, 57, 21.

[34] Tertulliano, Contra Marcionem, IV, 40, 3.

[35] Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogica V, 21.

[36] S. Agostino, In Iohannis Evangelium, XXVII, 2. Quanto Bruno di Segni dipenda da Agostino, è facile intuirlo. D’altra parte, il vescovo di Ippona era l’autorità massima e la voce più ascoltata, insieme ad Ambrogio e Ilario di Poitiers, nel Medioevo. Non è un caso che le Sentenze di Pietro Lombardo, il libro che farà testo nella Scolastica, di circa 1.200 citazioni dei Padri, ne contenga circa 900 che appartengono alle opere di s. Agostino.

[37] Ilario di Poitiers, De Trinitate, VIII, 15.

[38] Giovanni Damasceno, De Fide orthodoxa, IV, 13.

[39] Non va dimenticata, anche perché riguarda un personaggio di primo piano dell’età carolingia, la condanna, al sinodo di Quercy (838), dell’idea di Amalario di Metz circa il «triforme corpus Christi» (quello di carne sulla croce, quello eucaristico e quello ecclesiale); condanna che rivela il mutamento di prospettiva e di sensibilità, se si pensa che nella patristica l’identificazione del corpo di Cristo sulla croce, nell’eucarestia e nel corpo ecclesiale era un dato acquisito.

[40] DS 802.

[41] Expositio in Exodum, XXXIV: PL 164, 376°.

Free Joomla templates by Ltheme