di Dario Vitali
“Ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”, diceva Gesù (Mt 13,52). Anche ogni teologo è sempre chiamato a misurarsi con la storia che, a volte, rimanda figure e percorsi di pensiero capaci di offrire piste nuove per la ricerca teologica di oggi, che si profila come tentativo di ripensamento e riconfigurazione del pensiero cristiano e dell’intera vita della chiesa e dei credenti secondo nuovi criteri e nuovi modelli.
Una figura di questo genere è sicuramente Bruno di Segni, uno dei protagonisti più rilevanti – ma anche più dimenticati – della Riforma gregoriana. Alla voce “Bruno di Segni” il Dizionario Enciclopedico Italiano scrive: “Bruno di Segni (anche Brunone di Asti), teologo e polemista, nato forse ad Asti (1044 o 1048), morto a Segni (1123). Vescovo di Segni (1080), nel 1108 era eletto anche abate a Montecassino, carica che lasciò nel 1111. Amico e consigliere di Gregorio VII, fu uno dei più tenaci sostenitori dei diritti della chiesa nella lotta per le investiture; intransigente e battagliero anche nel campo dogmatico, ha fama altresì per i lavori di esegesi biblica: commentari sul Pentateuco, sul libro di Giobbe, sul Cantico dei Cantici, sui Vangeli e sull’Apocalisse”[1].
- Lo strano silenzio intorno a Bruno di Segni
Questi brevi cenni rendono bene la statura dell'uomo e dicono l'importanza della sua opera. Raro, tuttavia, che qualcuno abbia notizia di Bruno di Segni e della sua opera, anche tra gli addetti ai lavori. Rarissimo che trovi posto anche in opere specialistiche sul Medioevo. Eppure si tratta non solo di una figura di primissimo piano della Riforma della Chiesa, fautore fermo e intransigente della libertas Ecclesiae, ma di uno degli autori più fecondi del tempo: i suoi scritti esegetici e teologici occupano ben due volumi – il CLXIV e CLXV – della Patrologia Latina[2]. A ragione si può dire che sia il più grande esegeta dell’XI secolo, e anche il suo pensiero teologico è di tutto rispetto. Nel primo tomo sono contenuti i commentari ai libri dell’Antico Testamento: l’Expositio in Pentateuchum: in Genesim, in Exodum, in Leviticum, in Numeros, in Deuteronomium; a seguire, l’Expositio in Job, l'Expositio in Psalmos e, ancora, due perle dell’esegesi medioevale: l’expositio de muliere forte (commento a Pv 31,10-31) e l’Expositio in Cantica Canticorum[3]; nell’altro tomo sono raccolti i Commentaria in Matthaeum, in Marcum, in Lucam, in Johannem e l’Expositio in Apocalypsim, oltre a 143 omelie a lui attribuite, le opere teologiche – le Sententiae (o Libri Sententiarum) e i Tractatus[4] - e le vite di S. Leone Papa e di S. Pietro, vescovo di Anagni, con un Epistolario a conclusione.
Come mai, nonostante la mole delle opere, si è creato questo silenzio – strano, a dir poco – intorno a Bruno di Segni? Nel recente Convegno di studi promosso a Segni dall’Istituto di Scienze Religiose della Diocesi di Velletri-Segni: Bruno di Segni († 1123) e la Chiesa del suo tempo[5], R. Grégoire ha toccato la questione, mostrando come la figura e l’opera di Bruno di Segni non trovano oggi la dovuta attenzione. A dimostrazione, ha passato in rassegna tutte le più recenti opere di storia della teologia, dalla monumentale Storia della Teologia del Medioevo[6] alla Storia dei Dogmi diretta da B. Sesboüé[7], alla Storia della teologia diretta da E. Dal Covolo[8], a La teologia cristiana nel suo sviluppo storico di R. Osculati[9], senza dimenticare La teologia del XIII secolo di M.-D. Chenu[10], dove non compare mai un benché minimo riferimento a Bruno di Segni.
Eppure, il riferimento al santo era un dato acquisito nella prima metà del '900: nel Dictionnaire de Théologie Catholique, P. Godet descriveva "Bruno di Asti, o di Segni (santo), [come] uno dei più energici campioni della Chiesa nella disputa sulle investiture e una delle menti più colte del suo secolo, emulo di Ivo di Chartres per fermezza di carattere e per scienza", come "il confidente, il consigliere, il braccio destro di Gregorio VII e dei suoi successori, Vittore III, Urbano II e Pasquale II"[11]. Nel Lexicon für Theologie und Kirche, A. Zimmermann giudicava Bruno “il miglior esegeta del Medioevo”[12]. Giudizi analoghi nel Dictionnaire de Spiritualité[13], nel Dictionnaire d'Histoire et Géographie ecclésiastiques[14] e in altri dizionari ed enciclopedie del tempo[15]. Anche in ambito storiografico, il rimando al grande vescovo di Segni era tornato più volte. Per menzionare almeno una voce autorevole, G. Penco afferma che "egli è, dopo San Gregorio Magno, uno dei principali rappresentanti dell'esegesi biblica e della teologia spirituale, dove ha lasciato una traccia sicura e profonda"[16]. L'ultima voce autorevole che aveva offerto molti rimandi a Bruno di Segni è stato H. de Lubac, in Exégèse mediévale[17]. Poi, ad eccezione della tesi dottorale di R. Grégoire, Bruno de Segni, exégète médiéval et théologien monastique[18] e della biografia di B. Navarra, San Bruno Astense, Vescovo di Segni e Abate di Montecassino[19], più niente.
Come mai questo improvviso silenzio? Per Grégoire "questa dimenticanza e mancanza di considerazione si giustifica difficilmente, anche se un'ipotesi comprensibile nell'attuale conoscenza del latino consentirebbe di addebitare precisamente a tale debolezza culturale l'assenza del teologo medioevale dalle monografie specializzate. Ma si potrebbe anche ipotizzare che una situazione negativa del genere sia imputabile alla natura stessa del suo contributo, giudicato 'tradizionale' o 'antiquato' e sprovvisto di influsso sulla teologia dei secoli successivi"[20].
Forse non sarebbe da trascurare anche un terzo motivo: se si pensa al numero enorme di manoscritti presenti nelle biblioteche medioevali[21], e alle ben tre edizioni delle opere di Bruno di Segni[22], le citazioni nei dizionari e nelle enciclopedie sopraelencati sono ben poca cosa. L'impressione è che lo strano silenzio, una specie di damnatio memoriae, passi per il concilio vaticano I e il dogma dell'infallibilità pontificia. La forte sottolineatura data al primato pontificio dopo il concilio di fatto portò all'emarginazione e alla condanna non solo di chiunque avesse contestato la definizione, ma di chi, anche in un lontano passato, avesse in qualche modo contrastato l'autorità papale. E questo concerneva direttamente Bruno di Segni, il quale aveva contestato a Pasquale II il privilegio delle investiture laiche concesso all'imperatore. Se riletto con le categorie di fine '800, il contrasto di Bruno con Pasquale II appare un atto di lesa maestà. Ne potrebbe essere una riprova il fatto che, dopo il Vaticano I, al di fuori delle enciclopedie e dei dizionari (che, in ultima analisi, possono trattare la voce anche per amore di completezza), su Bruno di Segni si può recensire una sola opera degna di attenzione[23].
- Lo scontro con Pasquale II
Ma proprio lo scontro con Pasquale II è episodio in grado di offrirci una lezione di ecclesiologia di grande pregnanza e interesse. Bruno è uomo di Chiesa, che partecipa alla riforma con tutto se stesso, penetrato com'è di quei principi e convincimenti che segnano la vita della Chiesa in quel tornante della storia. Nel 1079, poco più che trentenne[24], viene nominato vescovo di Segni, città a circa 60 km a sud di Roma. Nativo di Asti o del circondario[25], dove ricevette una solida formazione e divenne prete[26], subito si dovette mettere in luce se, adolescentulus (vale a dire, sui 25 anni), scrisse per Ingone, vescovo di Asti, un commento – oggi perduto – al Salterio gallicano, e pochi anni più tardi il commento al Cantico dei Cantici per i canonici di Siena[27].
A Roma venne proveniente dalla città toscana[28], per partecipare alla disputa eucaristica contro Berengario[29], probabilmente chiamato da Pietro Igneo, cardinale vescovo di Albano[30]. Lo troviamo, infatti, tra i teologi che erano stati incaricati di studiare la posizione del teologo di Tours, accanto al più famoso Alberico di Montecassino[31], portavoce della posizione ortodossa nel dibattito contro Berengario. Questo significa che Bruno era già conosciuto e apprezzato presso la cerchia della riforma gregoriana. Il papa stesso pare l'abbia voluto elevare all'episcopato nella sede vicina di Segni per averlo come collaboratore.
Da quel momento Bruno assumerà un posto e un ruolo sempre più determinante nella Chiesa come uomo della riforma. E' con Gregorio VII a Roma con il gruppo di cardinali e vescovi che collaboravano con il papa nel governo della Chiesa. E' con lui quando, nel 1081 e nel 1082, Enrico IV cinge d'assedio la città, e, rinchiuso in Castel Sant'Angelo, scrive il commento a Isaia[32]. Negli anni successivi scrive i Commentaria ai Vangeli, forse già con l'incarico di bibliotecario-cancelliere della curia romana; incarico che rivestirà formalmente sotto Vittore III. Quasi tutti i documenti del tempo vengono controfirmati da Bruno, il quale, pur non essendo cardinale, partecipa all'elezione di Urbano II[33]. Di questi sarà poi consigliere e collaboratore fidato e con lui parteciperà a missioni delicate in tutta Europa: è a Cava dei Tirreni nel 1092, a Salerno nel 1093; dal 1094 è al seguito del papa nell'Italia del nord e in Francia, prima al concilio di Piacenza, poi a Cluny e al concilio di Clermont (1095), a Limoges e, l'anno seguente, a Charroux e al concilio di Tours; partecipa al Sinodo del Laterano nel 1097, a quello di Bari nel 1098. Continua questa intensa attività anche sotto Pasquale II: nel 1100 è a Salerno, e poi al concilio di Melfi, al seguito del papa; nel 1102 è a Roma, al Sinodo del Laterano e poi al sinodo di Benevento; si ritrova la sua firma sotto tutti i documenti pontifici fino alla sua ritiro a Montecassino, nel 1103. Ma anche dopo questa data, Bruno svolgerà ancora attività diplomatica per conto della sede apostolica: pur non essendo cardinale, è legato apostolico in Francia (e forse in Sicilia) nel 1104; nel 1105 è presente al Sinodo del Laterano, e poi a Civita Castellana; nel 1106 ancora in Francia come legato pontificio, dove presenzia alle nozze di Boemondo II d'Antiochia con Costanza di Francia e presiede il concilio di Poitiers in preparazione di una nuova crociata. Sul finire del 1107, di ritorno da un'altra legazione in Francia, viene eletto abate di Montecassino.
Poco si sa del motivo che ha spinto Bruno a ritirarsi nell'abbazia di Montecassino. Anche qui, le due fonti biografiche non sono concordi: il Chronicon, insistendo sulla vocazione monastica di Bruno, descrive l'ingresso a Montecassino come una fuga dal mondo, addirittura all'insaputa del papa; più plausibile il racconto dell’Anonimo, il quale parla di un scelta in seguito a una malattia contratta in Puglia, durante un viaggio papale, e del permesso di Pasquale II di ritirarsi a Montecassino[34]. La scelta appare una cesura netta nella sua vita[35]. Pur con modalità inusuali, la scelta andrebbe tuttavia ad inscriversi in un quadro consolidato della vita ecclesiale del tempo: tutti i grandi uomini della Riforma gregoriana erano soprattutto monaci[36]; d’altronde, le ragioni e gli ideali della riforma della chiesa erano, per così dire, un prolungamento e una applicazione su larga scala delle ragioni e degli ideali della riforma monastica.
La carica di abate conferisce ancora più autorevolezza a Bruno[37]. Autorevolezza che emerge con tutta evidenza in occasione del 'praevilegium' concesso da Pasquale II a Enrico V nell'aprile del 1111. I fatti sono noti. L'accordo tra Pasquale II e Enrico V sembrava risolvere definitivamente la lotta per le investiture: i termini dell'accordo contemplavano la rinuncia al diritto di investitura da parte dell’impero contro la restituzione di tutte le regalie ricevute dall'impero da parte della chiesa. I tumulti avvenuti in San Pietro dopo l’annuncio dell’accordo, il drammatico imprigionamento di Pasquale II e la costrizione a concedere nuovamente il diritto alle investiture furono un durissimo colpo alla libertas Ecclesiae. Il previlegio, estorto con la violenza, provocò una vivace reazione nella Chiesa, soprattutto negli ambienti legati alla riforma gregoriana, che investì Pasquale II, costretto a ritrattare quel giuramento, che tutti ormai definivano pravilegium.
Di questo periodo sono quattro lettere[38]: a Pietro, vescovo di Porto, ai vescovi e cardinali, al papa stesso e al preposito di S. Giorgio, il quale aveva scritto anche per conto dei vescovi di Lucca e di Parma e dei ministri dei camaldolesi e dei vallombrosani. Nella lettera a Pietro, Bruno mostra la sorpresa che “alcuni dei nostri fratelli non solo non condannano quello che ora è stato perpetrato contro la chiesa, ma si sforzano sfacciatamente (impudenter, o imprudentemente: imprudenter?) di difenderlo. Chi difende l’eresia è eretico. Nessuno può dire che questa non sia eresia”, sentenzia Bruno, richiamando le determinazioni di molti concili. Nell’aggiunta del codice cassinese si parla di fuggire quanti ritengono e difendono questa eresia, “anche se li amiamo con l’affetto dei genitori e come i nostri occhi e le nostre mani”. Si intende quelli che hanno sottoscritto il pravilegium? Se anche fosse, questo non significa condanna di quanti sono stati costretti a firmare con la violenza, come emerge dalla lettera a Pasquale II. Il criterio di discrimine su chi sia veramente eretico è il sostegno e la difesa esplicita del diritto delle investiture.
Ma più di un giudizio sulle persone, conta la libertà della Chiesa, e Bruno lo afferma senza mezzi termini: “Noi cercavamo la libertà della Chiesa, essi [gli eretici] invece la schiavitù”.
Nella difesa della libertas Ecclesiae Bruno si rivela come uomo pienamente libero: non teme di dire la verità, anche a costo di dolorose conseguenze, come la destituzione da abate, il ritorno a Segni e l’ostilità del papa, segnata dalla probabile perdita di tutti gli amici di un tempo.
Richiesto di esporre la sua opinione sull’eresia delle investiture laiche, Bruno risponde al preposito di S. Giorgio che “il papa non ama né me né il mio consiglio. Ma la buona decisione non deve essere mutata. Ed io ciò che ho affermato torno a ripetere e rimango fedelissimo alla sentenza di Gregorio e di Urbano, e spero dalla onnipotente misericordia di Dio di perseverare in questa decisione fino alla fine”.
Questa lettera segue alla lettera di Bruno a Pasquale II, dove emerge una realtà di Chiesa che va ben al di là dello scontro tra i due uomini. I rapporti gerarchici non tolgono a Bruno la parresía che gli è consueta: tale e tanto alta è la concezione della Chiesa, che nulla va anteposto alla sua libertà.
Ecco il testo della lettera: "A Pasquale, pontefice, grande signore e padre, Bruno peccatore, vescovo, servo del beato Benedetto. I miei nemici ti dicono che io non ti amo e che sparlo di te. Mentono. Io infatti ti amo come devo amare un padre e un signore e, te vivente, non voglio avere altro pontefice, come insieme a molti altri ti ho promesso. Ascolto però il Salvatore nostro che mi dice ‘Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me’ (Mt 10,37). Donde anche l’apostolo dice: ‘Se qualcuno non ama il Signore sia anatema. Maran atha (1Cor 16,22). Devo dunque amare te, ma più ancora devo amare colui che ha fatto te e me. Niente mai deve essere preferito a questo grande amore. Io non lodo quel patto così vergognoso, così violento, fatto con tanto tradimento e così contrario ad ogni pietà e religione. E neppure tu, come ho inteso dire da molti. Chi infatti potrebbe lodarlo? In esso viene violata la fede, la Chiesa perde la libertà, viene soppresso il sacerdozio, viene chiusa l’unica e singolare porta della Chiesa, vengono aperte molte altre porte, per le quali chi entra è ladro e assassino. Abbiamo i canoni, abbiamo le costituzioni dei santi padri dagli apostoli fino a te. Bisogna camminare per la via regia, e da essa non deviare in alcuna parte”. E dopo aver ricordato al papa di aver emanato dei canoni che condannano l’eresia delle investiture laiche, che escludono dalla comunione ecclesiale quelli che li contraddicono, lo invita con toni accorati: “Dunque, padre venerabile, conferma di nuovo questa costituzione tua e degli apostoli, predicala apertamente a tutti gli ascoltatori nella tua chiesa, che per tutti è a capo delle chiese. E condanna con l’autorità ecclesiastica questa eresia, e subito vedrai tutta la chiesa riappacificarsi con te; subito vedrai tutti affluire ai tuoi piedi e con grande gioia obbedire a te come a padre e signore. Abbi pietà della Chiesa di Dio, abbi pietà della sposa di Cristo! E per mezzo della tua prudenza recuperi la libertà, che poco fa per te ha perduto. Io poi faccio poco conto di quell’obbligo e di quel giuramento di cui abbiamo parlato sopra; né per la violazione di quel giuramento ti sarò mai meno obbediente”.
Le conseguenze: sul piano ecclesiale, l'opposizione di Bruno e dei partigiani della riforma fu la ritrattazione del praevilegium già l'anno dopo, nel sinodo lateranense del 1112, poi reiterato in un altro sinodo lateranense del 1116. Ma, sul piano personale, Bruno aveva già conosciuto la reazione di Pasquale II, il quale gli aveva ordinato – motivando l'ingiunzione con l'impossibilità di cumulo delle prebende, secondo il dettato del concilio di Clermont (1095) – di dimettersi dalla carica di abate e di tornare a Segni, e aveva imposto ai suoi monaci di “non obbedire più a Bruno e di eleggersi, secondo Dio e la regola, un altro abate”, pena l'imposizione di abati di nomina pontificia nei monasteri alle dipendenze di Montecassino[39].
Quando Bruno, convocati i monaci, rende pubblica la sua rinuncia deponendo sull'altare l'anello e la croce abbaziale, si chiude non soltanto la sua breve esperienza monastica, ma un momento doloroso della storia della Chiesa, che poteva riservare altri scontri e altre divisioni se Bruno non avesse fatto tale passo e avesse alimentato la reazione del partito della riforma.
- Le ragioni di fondo dello scontro
L’ecclesiologia che sta dietro le lettere di Bruno è quella tipica della riforma gregoriana: la chiesa di Cristo è tale solo a condizione della libertas, svincolata da ogni forma di soggezione al potere temporale. Il suo statuto di libertà è reso possibile dalla capacità della Ecclesia romana e del suo capo di sottrarsi al prolungato potere imperiale e di compattare attorno a sé la cristianità. Si capisce in questo quadro la presa di posizione di Bruno, che dice senza mezzi termini a Pasquale II come in quel patto “viene violata la fede, la Chiesa perde la libertà, viene soppresso il sacerdozio, viene chiusa l’unica e singolare porta della Chiesa, vengono aperte molte altre porte, per le quali chi entra è ladro e assassino”.
E' l'eco, questa, del Dictatus papae di Gregorio VII, al cui spirito Bruno si attiene fedelmente. Per gli uomini della riforma – e Bruno era a quel tempo l'esponente di punta, quasi la memoria storica, data la sua esperienza e la sua collaborazione con Gregorio VII, Vittore III e Urbano II – quanto ostacolava e oscurava la coscienza e dignità della Chiesa, era bollato come eresia. Per quanto l’uso linguistico del termine appaia dilatato rispetto alla definizione più formale di dottrina che contraddice una verità della Rivelazione insegnata dal Magistero, fa emergere una concezione di chiesa di alto profilo, capace di sostenere e giustificare le lotte per la libertas Ecclesiae sia dentro che fuori la compagine ecclesiale, contro imperatori, re e principi.
Si capisce in questa prospettiva l'insistenza di Bruno al sinodo lateranense del 1116, quando avrebbe affermato di rendere grazie a Dio per aver sentito finalmente il papa condannare con la sua stessa bocca quel pravilegium malvagio ed eretico[40]. Sintomatico del cambiamento di atmosfera la reazione di Giovanni di Gaeta, il futuro Gelasio II (1118-1119), il quale accusava Bruno di reiterare anche in concilio l'accusa di eresia rivolta al papa, non distinguendo tra errore ed eresia[41].
Pur con le dovute cautele del caso[42], si possono fare alcune considerazioni.
Anzitutto, l'insistenza di Bruno non può essere unicamente ascritta a intransigenza eccessiva. Il pravilegium metteva realmente a rischio la riforma della chiesa, così come Gregorio VII e Urbano II l'avevano condotta e Bruno l'aveva vissuta. Quasi temesse un cedimento sul fronte della riforma e una perdita dello spirito di un tempo, con il rischio di compromettere i risultati ottenuti a prezzi altissimi, Bruno interviene con veemenza a difendere “i sacri canoni”[43].
Naturalmente, questo non spiega ancora l'atteggiamento tanto risoluto di Bruno, che si permette una franchezza così inusitata nei confronti del papa. Esistono, a mio parere, almeno tre fattori che inquadrano e spiegano la presa di posizione di Bruno.
Il primo è, in un certo senso, personale: a quel tempo Bruno era forse l'uomo di punta della riforma gregoriana, uno degli ultimi testimoni e protagonisti della prima ora. Non tanto perché non ve ne fossero altri[44], ma perché la sua collaborazione con i predecessori di Pasquale II era stata tale da renderlo depositario, interprete, quasi memoria vivente dello spirito della riforma. Le richieste di consiglio da parte di cardinali, vescovi e ministri di ordini religiosi, attestate dall'epistolario, dimostrano la stima che in tal senso Bruno riscuoteva: in quel momento difficile per la Chiesa, Bruno appare come il capo del partito della riforma, inflessibile e acceso custode dei “santi canoni”, che ripete nei toni e nei contenuti le posizioni di Gregorio e di Urbano.
Il secondo fattore è l'idea di eresia nel medioevo. Grégoire, commentando l'uscita di Bruno al sinodo lateranense del 1116, gli attribuisce "une certeine etroitesse d'esprit juridique", che gli faceva vedere come eresia una questione che non era de fide, ma giuridica. Questo giudizio, però, è fuorviante, perché non tiene nel dovuto conto l'idea di eresia tipica del medioevo e, in particolare, della riforma gregoriana. Per quel tempo, eresia non era soltanto l'errore che riguardava le verità di fede, ma tutto ciò che poteva produrre divisione nella chiesa e pregiudicarne la libertas; di qui la stretta connessione tra eresia e scisma[45]. La separazione tra oriente e occidente nel 1054 e la lotta per le investiture, che fa della cristianità latina una sola grande diocesi - la Ecclesia romana - sotto il papa, episcopus universalis, “mettono in opera una concezione della chiesa universale una, non solo come mistero spirituale unico, identico dovunque a se stesso, ma come realtà sociologica giuridicamente una e sottomessa all'unica autorità regolatrice”[46]. Se si allenta il nesso tra eucarestia e chiesa[47], come dimostra la disputa di Berengario, e l'eucarestia è intesa come corpus verum realiter e substantialiter, la chiesa non può che diventare il corpus mysticum, unito interiormente al suo capo, Cristo, ma esteriormente unito al principio di unità visibile in terra, il papa. L'unità sostanziale della chiesa è sempre e solo con Cristo, suo capo, che tuttavia può attuarsi soltanto a condizione dell'unità con e sotto il papa, principio visibile di unità. Si tratta di una “unità intrinseca e soprannaturale, che si rende visibile nell'unità esterna, nell'obbedienza ai singoli pastori, a loro volta soggetti a un unico capo, il Vicario di Cristo”[48].
La questione per i medioevali era de fide, in quanto implicava la relazione stessa con Cristo[49]. Le applicazioni di questa idea varieranno nel corso della storia, arrivando agli eccessi del partito conciliarista che, a Pisa e a Costanza, tenteranno di risolvere il Grande Scisma d'Occidente accusando i tre contendenti di eresia, in quanto, come asseriva nel 1408 Francesco Zabarella, vescovo di Firenze fautore delle teorie conciliariste, “lo scisma implica l'eresia, in quanto lo scismatico intende costituirsi una chiesa propria in opposizione alla chiesa universale, che è una”[50]. Ma anche questa posizione estrema muove dal principio teorizzato e attuato dai sostenitori della riforma gregoriana, i quali insisteranno sull'equivalenza tra scisma ed eresia, nell'idea che dividere – o permettere la divisione della chiesa – metteva a rischio la stessa salvezza, in quanto corrompeva lo strumento di mediazione voluto da Cristo per comunicarla, vale a dire quella Ecclesia romana che, per promessa e dono stesso di Cristo a Pietro, è garanzia della fede che non cadrà mai nell'eresia e che, per questo, a nemine iudicatur. Si capisce in questa direzione anche l'idea che i sacramenti amministrati da sacerdoti e vescovi simoniaci o concubini non fossero validi e andassero rifiutati, per il fatto che compromettevano la santità della chiesa, e quindi la retta trasmissione della fede e la piena comunicazione della salvezza. Con lo sviluppo dottrinale successivo tali posizioni non sono più sostenibili; ma a quel tempo simili idee erano assolutamente condivise, e ispiravano e regolavano la dottrina e la disciplina ecclesiale.
Naturalmente, la stretta connessione tra scisma ed eresia vale se e quando si ammetta che la separazione dalla chiesa – o da una forma di chiesa - separi anche da Cristo. Ma raramente (per non dire mai) chi sceglie e produce una separazione nel tessuto ecclesiale riconosce una separazione dal capo; anzi, pretende di affermare un'idea alternativa di chiesa nella convinzione di favorire una vera unione con Cristo-capo, nell'idea magari di ristabilire la verità delle origini. E questo produce inevitabilmente lo scontro delle parti, con rivendicazione di ragioni opposte e alternative su un versante e sull'altro. Ora, se anche questa dialettica era in atto tra il partito gregoriano e i suoi oppositori, la peculiarità degli uomini della riforma era di ritenere la loro concezione di chiesa come l'unica possibile: la chiesa di Gregorio era la chiesa una, santa, cattolica e apostolica, l'unica chiesa direttamente voluta e fondata da Cristo, per cui risultava inammissibile – eretica – ogni altra idea di chiesa. E sulla base di questa convinzione condussero una lotta acerrima contro quelli che ritenevano i mali del tempo – anzi, le eresie del tempo – che corrompevano la chiesa di Cristo: simonia, nicolaitismo, investitura laica.
La posizione intransigente su cui Bruno si era attestato va compresa sulla base di questa visione ideale ed esclusiva di chiesa, che il movimento di riforma sosteneva: soltanto la Ecclesia romana, mai giudicabile da nessuno, è la colonna della verità. A questa prerogativa concessa da Cristo a Pietro il papa partecipava in sommo grado, ma non esauriva in sé questa funzione, subordinata anzi a una condizione: nisi forte deprehendatur a fide devius[51]. Ma nel caso del pravilegium, il papa – e non solo a giudizio di Bruno – esponeva la chiesa all'errore e quindi diventava (nel caso non avesse riconfermato i canoni di Gregorio e Urbano) a fide devius. Il rischio era quello di esporre la chiesa all'eresia, svuotando la promessa stessa di Cristo su cui si fondava la convinzione della indefettibilità della chiesa. Il tentativo dei partigiani di Pasquale II di inquadrare la concessione del papa all'imperatore come errore era segno inequivocabile e inquietante dell'indebolimento dell'idea di chiesa propugnato dalla riforma gregoriana. Come si vede, la questione è anzitutto ecclesiologica: quando lo scontro tra papato e impero sarà tale da portare a un compromesso (che culminerà con il concordato di Worms), l'accusa di eresia sarà derubricata a errore, come fece appunto Giovanni di Gaeta al sinodo del 1116. Ma a quel punto la spinta della riforma gregoriana é ormai esaurita e chi, come Bruno, si ostinava su quelle posizioni, doveva apparire come un uomo superato dagli eventi, chiuso in una lettura delle cose ormai inadeguata: in fin dei conti, un uomo del passato. Il rimprovero di Giovanni di Gaeta si può forse intendere come la dichiarazione della fine di un'epoca, o almeno degli ideali che l'avevano sostenuta; rimprovero rivolto a un uomo che, per quanto fosse stato cancelliere della curia romana, aduso alle sottiglezze del diritto, non voleva piegarsi ai criteri della mediazione e non usava i registri della diplomazia, ma continuava a trattare come eresia quello che ormai era considerato soltanto un errore.
Non per questo Bruno demorde. Nella lettera a Pietro, vescovo di Porto, dice senza mezzi termini che "chiunque difende l'eresia è eretico". La sua argomentazione è un esempio paradigmatico della concezione di eresia tipico della riforma gregoriana: il previlegio firmato da Pasquale II è da considerarsi eretico, perchè in molti concili la chiesa così l'ha chiamato, sempre comminando la scomunica contro il diritto all'investitura. D'altronde, se sono eresie quelle che tali sono dichiarate e condannate dai concili, si capisce come Guiberto (cioè l'antipapa Clemente III, morto nel 1100, dopo aver diviso la Chiesa per una ventina d'anni) si dovesse considerare come eresiarca e come fossero eretici tutti quelli che ne condividevano la posizione[52].
Solo così si capisce come, per i paladini della riforma, l'investitura laica non poteva essere altro che una eresia, anzi, l'eresia per antonomasia. Infatti, a causa di "quel patto così vergognoso, così violento, fatto con tanto tradimento e così contrario ad ogni pietà e religione […] viene violata la fede, la Chiesa perde la libertà, viene soppresso il sacerdozio, viene chiusa l’unica e singolare porta della Chiesa, vengono aperte molte altre porte, per le quali chi entra è ladro e assassino". Né questa stroncatura durissima del trattato implicava una condanna del papa, ma apriva e, in un certo senso, obbligava a una scelta in linea con i criteri della riforma: “Dunque, padre venerabile, conferma di nuovo questa costituzione tua e degli apostoli, predicala apertamente a tutti gli ascoltatori nella tua chiesa, che per tutti è a capo delle chiese. E condanna con l’autorità ecclesiastica questa eresia, e subito vedrai tutta la chiesa riappacificarsi con te; subito vedrai tutti affluire ai tuoi piedi". Parlare dei “canoni e delle costituzioni dei santi padri dagli apostoli fino a te” come della “via regia”, da cui “non deviare in alcuna parte”; richiedere di “confermare di nuovo questa costituzione tua e degli apostoli” mostra come la lotta per le investiture – come, d'altronde, la simonia e il nicolaitismo – non fossero intese come questioni disciplinari, ma come eresie vere e proprie, per il fatto che costituivano un rigetto dell'auctoritas Ecclesiae, la sola depositaria della Rivelazione e la sola mediatrice della salvezza.
Ma esiste anche una terza ragione che spiega il comportamento di Bruno: la particolare forma di governo della chiesa in quel tempo. Il Dictatus Papae ha fatto dire a molti che questo è il tempo della fondazione e dello sviluppo del primato papale. Ma bisogna guardarsi dal retroproiettare sull'XI secolo modelli ecclesiologici e categorie interpretative operanti al concilio vaticano I. Certo, asserire che “solo il romano pontefice sia detto, legittimamente, universale”; o che “il papa è il solo uomo a cui tutti i principi bacino i piedi”; o che “a lui solo è permesso deporre gli imperatori”, e “nessuno deve riformare la sua sentenza e solo lui può riformare la sentenza di tutti” si muovono nella direzione del primato. Tuttavia, queste sono affermazioni di principio più che dati di fatto: si tratta di convinzioni di Ildebrando e della sua cerchia, non condivise e aspramente combattute dal partito avverso, alle quali resisteva non solo l'imperatore, ma anche la maggioranza degli ecclesiastici. In altre parole, il riconoscimento dell'autorità del papa non era un elemento pacificamente riconosciuto nella chiesa, ma una rivendicazione del partito della riforma, che attraverso questo vettore ha inteso realizzare la libertas Ecclesiae, rovesciando il rapporto di dipendenza del papa dall'imperatore, perdurante dai tempi di Carlo Magno. Per fare questo, i riformatori hanno condotto la loro battaglia saldamente uniti intorno al loro ideale, sostenendo e innalzando la figura e la funzione del papa come episcopus universalis attorno al quale poteva raccogliersi l'intera cristianità per un rinnovato cammino di fedeltà al Vangelo, e potevano coaugularsi le forze della riforma per compiere questo progetto di rinnovamento della chiesa: in ultima analisi, un processo di rafforzamento e di massimalizzazione dell'istituzione papale come vettore e volano della riforma della chiesa. Corrispondentemente, i papi si sono circondati di collaboratori fidati e strenuamente votati a questo ideale per realizzare una riforma incredibile, che da soli mai avrebbero potuto condurre al successo. Si trattava di uomini di intensa vita spirituale, votati al bene della chiesa, che tra loro erano anche, generalmente, amici. Questo poteva conferire un tratto di familiarità ai loro rapporti. I toni dello scontro tra Bruno e Pasquale II potrebbero rivelare anche questa forma di relazione.
Ma la lettura può essere portata a un livello più profondo e, in un certo senso, strutturale della vita della chiesa, ipotizzando un regime sinodale nella guida della Ecclesia romana tra XI e XII secolo[53]. Due indizi, strettamente connessi, orientano in questa direzione: la nuova configurazione e funzione che assume il collegio dei cardinali e la prassi sinodale che a tutti i livelli della compagine ecclesiale – locale, provinciale, regionale, generale – regola in quel tempo la vita della chiesa.
Non può non stupire – e non costituire un fatto degno di riflessione – la continua convocazione di sinodi e concili, presieduti personalmente dal papa o da un suo legato che, secondo la quarta proposizione del Dictatus Papae, “in un concilio è al di sopra di tutti i vescovi, anche se inferiore per ordinazione, e può emettere contro di loro sentenza di deposizione”. E se il legato appare ancora come un prolungamento del pontefice e della sua autorità, la partecipazione del papa ai diversi concili e sinodi mostra come questa fosse la forma abituale di guidare la Chiesa. Che si trattasse di una scelta strategica – le decisioni collegiali vincolano tutti coloro che le prendono – o di una prassi collegiale convinta e condivisa, sta di fatto che la consuetudine di convocare sinodi e concili resiste anche quando, con Innocenzo III, il primato del papa sarà un fatto acquisito e irreversibile. Si tratta, secondo la formula di Alberigo, di un “regime sinodale” nel governo della chiesa[54].
E' di questo periodo, d'altronde, la nuova importanza che riceve il collegio dei cardinali, non solo perché nel sinodo lateranense del 1059 riceve la prerogativa di eleggere il papa, ma perché partecipa al vivo al governo della chiesa, in forza di quel movimento di centralizzazione che Gregorio e i suoi successori stavano tentando per realizzare la riforma della chiesa, e che aveva bisogno di collaboratori che agissero secondo la mens della riforma. Così, i cardinali (se come collegio o singolarmente presi è da discutere) diventano l'organo supremo di governo della chiesa insieme al papa, del quale condividono il carico di responsabilità nell'attuazione della riforma, tanto a livello di organo collegiale quanto di collaborazione personale, soprattutto nell'espletamento delle varie legazioni in giro per tutta Europa[55].
Questa collaborazione non era solo funzionale al governo della Chiesa; piuttosto, era l'aspetto funzionale a discendere dalla concezione della Ecclesia romana, almeno come era intesa in questo periodo. Quanto più si affievoliva il riferimento alla chiesa locale con un popolo di Dio legato a un territorio e a un vescovo (il quale, nel caso specifico del papa, aveva anche prerogative e funzioni particolari verso le altre chiese), tanto più cresceva l'assimilazione della Ecclesia romana con il papa e il suo collegio – in analogia con Cristo e i suoi apostoli – come organo di guida della chiesa universale. Infatti, “verso la fine dell'XI secolo, l'ecclesia Romana si presenta fondamentalmente come il vertice della chiesa – non di una provincia ecclesiastica, né del patriarcato d'Occidente, ma della chiesa universale (totius ecclesiae catholicae) – di cui fanno parte ad un tempo i successori di Pietro e i cardinales, prima solo gli episcopi, poi, molto presto, anche i praesbyteri e i diaconi cardinales nella misura in cui prevalgono le nuove funzioni di governo sull'antico ufficio liturgico che quelle distinzioni giustificava. Questa ecclesia Romana non è un'immagine astratta, ma è realmente il vertice della chiesa in ordine ai grandi problemi della fede e – sempre più – del governo [della chiesa]” [56]. L'unità del papa con i suoi cardinali è un modo per pensare il capo della chiesa rispetto all'intero corpo che dall'azione di questo capo riceve la salvezza: si tratta, sul piano ecclesiologico, di una rappresentazione visiva di quella che, sul piano cristologico, è la gratia capitis[57]. Se questo è vero, il collegio dei cardinali non poteva ridursi alla somma dei collaboratori più stretti del papa: di trattava piuttosto di un collegio, anzi di un corpo formato di membra strettamente interconnesse di cui il papa era il capo. Che poi la storia abbia segnato la preminenza dell'elemento personale, marcando la figura e la funzione del papa a discapito della dimensione collegiale, significata dai cardinali e dal ‘concistoro’, nulla toglie al fatto che in quel tempo si è vissuta un'esperienza di guida sinodale della Chiesa che potrebbe essere istruttiva quando si ricercano nuove vie per ripensare il primato, secondo la richiesta di Giovanni Paolo II al n. 95 della Ut unum sint[58].
Più che un governo personale del papa, quindi, la riforma gregoriana sembra riverberare prima una guida sinodale della Chiesa (soprattutto con Gregorio VII)[59], poi una forma di governo collegiale del papa con i suoi cardinali (indicativamente con Urbano II), per terminare a una leadership personale del papa (che avrà il suo paradigma esemplare in Innocenzo III ma che già si affaccia con Pasquale II). Un processo molto veloce, che nulla toglie però alla “realtà dell'ecclesia Romana [che] risulta dalla comunione tra papa e cardinali, un fatto – per quanto sui generis – sinodale”[60]. I cardinali, infatti, erano pars corporis domini Papae o pars capitis papae[61], soggetti propri e non delegati della sua plenitudo potestatis.
L'affermazione è confermata da un indizio che dovrebbe far riflettere. In una lettera al clero della diocesi suburbicaria di Velletri, datata 11 giugno 1065, Alessandro II, predecessore di Gregorio VII, concede dei privilegi "propter fidelissimis servitiis vestris, expressis a Petrus Damiani nostri Coepiscopo". La lettera, presente nell'archivio capitolare di Velletri, ha già diviso gli studiosi[62]. L’interesse della lettera sta tutto in quel coepiscopus, che non appare titolo di cortesia né formula fissa per indicare un vescovo[63]. Il titolo direbbe una partecipazione diretta alla responsabilità del papa nel governo della chiesa. In altre parole, insieme e accanto al papa, vescovo universale, esistono dei co-episcopi che collaborano con lui non in posizione vicaria, ma secondo una forma di corresponsabilità che partecipa direttamente alla sua funzione papale di guida universale della chiesa. Questo non significa fare del papa un primus inter pares, ma cogliere una modalità di esercizio del primato diversa da quella che andrà imponendosi con Innocenzo III e, più tardi, con le determinazioni del concilio vaticano I. Secondo questa modalità si spiega e si giustifica – tanto nei toni come nel contenuto – l’intervento di Bruno presso Pasquale II.
- L'ecclesiologia di Bruno di Segni
Ma l’ecclesiologia di Bruno di Segni non si riduce ai temi della riforma gregoriana. Anzi, si potrebbe forse dire che egli, esegeta e teologo prima di diventare uomo della riforma, abbraccia quell'ideale perchè è intimamente nutrito e mosso da convinzioni più profonde, che implicano anche una particolare comprensione della chiesa.
Ad esempio, nella lettera a Pasquale II, compare l'immagine della chiesa-sposa di Cristo: "Abbi pietà della chiesa di Dio, abbi pietà della sposa di Cristo!". Anche nel momento dell’elezione a vescovo, gli agiografi di Bruno parlano di una ‘bellissima signora’ che ferma la sua fuga: "Bruno, redi: nactam tibi Summo Numine sponsam non equum est solare deseruisse: redi". Appare questa la figura attraverso cui Bruno interpreta tutta la realtà della chiesa. Questa concezione, di matrice chiaramente biblica e patristica, sta più in radice rispetto al quadro dottrinale – o ideologico – della riforma gregoriana e fa di Bruno un vero e proprio ecclesiologo. Si sa che è di questo periodo l’elaborazione, conseguente alle dispute tra papato e impero, di una ecclesiologia di tipo giuridico, che tenta di profilare una teoria dei poteri che distingua tra potere temporale e spirituale, tracciando la carta dei diritti e delle prerogative della chiesa[64].
Queste affermazioni appaiono anche in Bruno, il quale sottolinea in modo netto le funzioni e le prerogative di apostoli et doctores. Ma non si troveranno mai secondo quello schema di pensiero: per Bruno la grandezza della chiesa si comprende su un registro mistico più che giuridico.
Per dimostrarlo basta una veloce lettura del commento esegetico di Bruno di Segni a Mt 16,18, che per la teologia e la canonistica del tempo era il fondamento del potere di ordine e di giurisdizione del sommo pontefice[65]. Per Bruno la risposta di Pietro – Tu es Christus, Filius Dei vivi – è data in quanto princeps apostolorum. Ci si aspetterebbe quindi una dimostrazione del primato pontificio. Invece il commento, in linea con la lettura allegorica della Scrittura, si sviluppa su un registro tutto spirituale. Singolare l’affermazione circa Pietro come uomo spirituale: spiegando l’appellativo Barjona, che significherebbe ‘figlio della colomba, Bruno afferma che il titolo indica Pietro come uomo spirituale (dal momento che la colomba rimanda allo Spirito), il quale dà una risposta spirituale, che non procede da carne e sangue, ma dal Padre stesso. Più singolare ancora la spiegazione della fondazione della chiesa su Pietro:
“«E io ti dico, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa». Tu dici, e dici il vero, che io sono il Cristo, il Figlio del Dio vivente; e io dico a te, che tu sei Pietro, forte nella fede e stabile nella dottrina. Se infatti in questo nome il Cristo non avesse inteso la fortezza e la stabilità, non avrebbe aggiunto ciò che segue immediatamente: e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa. Se non comprendi Pietro, guarda la pietra: la pietra era Cristo. Così dunque pietra deriva da Pietro, come cristiano da Cristo.
Vediamo poi che cosa significhi «sopra questa pietra edificherò la mia chiesa». [Significa] sopra questa pietra, che tu proprio ora hai posto a fondamento della fede; sopra quella fede, che tu proprio ora hai manifestato, dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; sopra questa pietra e sopra questa fede edificherò la mia chiesa. Concordando con questa sentenza, l’Apostolo dice: «Nessuno può porre un altro fondamento oltre quello che già è stato posto, che è Cristo Gesù» (1Cor 3,11). Ma se dice: Non esiste altro fondamento, se non quella pietra che Pietro pose a fondamento, quando disse: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»: è sopra questa pietra che si edifica tutta la chiesa di Dio".
Né questa interpretazione spirituale esclude la dimensione istituzionale della chiesa, tipica della riforma gregoriana. Spiegando il significato delle ‘porte degli inferi’, Bruno invita a conoscere prima le ‘porte del cielo’, che, a suo parere, sono gli apostoli, i vescovi e i sacerdoti, e tutti quei fedeli che per dottrina e per vita esemplare hanno varcato le porte del cielo. Sono invece ‘porte degli inferi’, che tuttavia non possono prevalere contro quella pietra, e quindi contro la chiesa, i giudei e gli eretici, tutti i seduttori e i corruttori della fede cristiana: attraverso di loro le anime infedeli vanno all’inferno.
Bruno conosce, e condivide l’impostazione piramidale della chiesa: spiegando l’arca di Noé come figura della chiesa, afferma: "Se qualcuno intende considerare gli ordini della chiesa, come per ordine siano disposti sopra i laici i chierici, sopra i chierici i presbiteri, sopra i presbiteri i vescovi, sopra i vescovi gli arcivescovi, sopra questi i patriarchi, e alla fine si scopra il sommo pontefice, anche in questo modo potrà capire come l’arca di Dio sia ampia nelle parti inferiori, restringendosi progressivamente per terminare in alto in un solo cubito [di larghezza]"[66].
Anche quando descrive la struttura istituzionale della chiesa, Bruno lo fa sempre attraverso il metodo che gli è più familiare: l’interpretazione spirituale della Scrittura.
E’ in questa linea che assume tutto il suo valore la figura della chiesa come Sposa di Cristo.
Bastino due citazioni, tratte dal commentario alla Genesi e dal commentario al Cantico dei Cantici.
Spiegando la creazione della donna, Bruno istituisce il parallelo tra l’Adamo dormiente, da cui viene creata Eva, e Cristo, il secondo Adamo, dal cui costato nasce la chiesa: “Come, infatti, Eva fu fatta da una costola sottratta all’Adamo dormiente, così il sangue, che redense e creò (fabricavit) la chiesa, uscì dal costato di Cristo che in croce dormiva il sonno della morte”[67]. Questa descrizione è preceduta dal riferimento a Ef 5,32: “Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla chiesa”. Il quadro interpretativo di Bruno è quindi l’idea biblica della chiesa-sposa, che Cristo presenta al Padre senza macchia né ruga, ma tutta santa, lavata dal sangue dell’Agnello. Stesso quadro interpretativo nel Commento all’Apocalisse, quando parla di coloro che sono stati lavati nel sangue dell’Agnello (Ap 7,14)[68].
Ancora più intensa una citazione del Cantico dei Cantici: commentando Ct 3,11 (“Uscite, figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona che gli pose sua madre nel giorno delle sue nozze”), Bruno identifica Cristo con Salomone. Domandandosi quando il Cristo fu coronato re, Bruno risponde: “Nel giorno delle sue nozze. Cioè nel giorno in cui Cristo fece le nozze, e si sposò la chiesa del Padre, e dal costato del dormiente ne fece la sposa (coniugem). E infatti, come dall’Adamo dormiente, sottratta una costola, fu fatta Eva, così dal Cristo dormiente, con il costato perforato dalla lancia, fu fatta la chiesa”[69]. Anche qui il quadro di riferimento è Ef 5,32: la chiesa che Cristo unisce a sé è senza macchia né ruga. Quando commenta l’abbraccio dello sposo e della sposa, Bruno afferma che questo abbraccio significa che Cristo è morto per la chiesa. Tutto il Cantico è letto da Bruno identificando allegoricamente Cristo allo sposo e la chiesa alla sposa.
La chiesa è la virgo beata, la sponsa pudica, la dulcis amica [70]. Ma, al di là della bellezza formale e della capacità evocativa dell’immagine, che cosa sottende propriamente la definizione della chiesa come sposa? Si tratta di una immagine poetica, che non si coniuga con la realtà di una chiesa in lotta sul fronte interno con i simoniaci e i nicolaiti, e sul fronte esterno con l’impero?
In Bruno di Segni la figura della chiesa-sposa si direbbe onnicomprensiva, anzi onnipervasiva: a questa definizione Bruno riconduce tutti gli aspetti della chiesa, tanto quelli misterici che quelli istituzionali. Basta leggere l’inno a conclusione del capitolo quarto del Cantico:
Abbiamo detto che la chiesa / è la sposa regale del Re, / della quale voi profeti siete gli occhi, / voi, Pietro e Paolo, i denti fortissimi, / che continuamente la rinvigorite./ Le guance sempre rosee / sono in modo particolare i martiri./ Gli imperfetti e i deboli di minor merito / sono i capelli, / perché come quelli sono instabili./ Al collo abbellito di medaglie / assimiliamo i vescovi, / che difendono fortemente le loro pecore / perseguitando i vizi, / i leoni, le furie velenose e i dragoni.
Il giardino è il luogo santissimo/ e inviolabile dei santi, / che non manca di gigli e di rose, / né gli alberi sono privi dei loro frutti./ Qui c’è una fonte dal sapore dolcissimo / che il soffio dei venti, / cioè le schiere dei tiranni / perturba e agita con violenza; / i martiri raggiungono il cielo con onore, / al Signore piace il loro profumo.[71]
Anche nel commento a Sir 31,10-31, Bruno afferma, con un testo poetico, che la donna forte è simbolo della chiesa: "Con grande certezza conoscemmo / che il discorso di Salomone / indica la chiesa / donna fortissima. // Costei il re più sapiente / e più potente di tutti i re, / venendo in forma umana / si scelse in sposa. // In questa ci sono moltissimi profeti/ apostoli, vescovi / confessori e martiri/ insieme a vedove e vergini[72].
Nel Primo Libro delle Sententiae le otto figure della chiesa sono le illustrazioni più significative del mistero della chiesa-sposa: il paradiso terrestre, l’arca di Noé, l’arca dell’alleanza, la donna che raffigura la chiesa, la città di Gerusalemme, le basiliche dedicate dai vescovi (il rituale di dedicazione), i Vangeli. Tutte le caratteristiche di queste figure sono applicate in modo esemplare alla chiesa, che appare così in tutta la sua santità.
Ma, più ancora, è il Libro Secondo – De ornamentis Ecclesiae – che dice l’idea di chiesa di Bruno di Segni: gli ornamenti della chiesa sono infatti la fede, la speranza, la carità; sono le quattro virtù cardinali e le altre virtù e doni dello Spirito: l’umiltà, la misericordia, la pace, la pazienza, la castità, l’obbedienza, l’astinenza. La chiesa non è altra dai cristiani che vivono secondo queste virtù: di conseguenza, la chiesa appare come la regina che sta alla destra del re, splendidamente vestita e adornata di gioielli (Sal 44,11ss). L’oro, le pietre preziose, gli abiti intessuti e trapunti d’oro indicano la sapienza, la vita integra, la purezza: la chiesa così descritta è “la tutta sapiente, la tutta monda e incorrotta”[73]. E’ un modo particolare di parlare della santità della chiesa, che costituisce il leit-motiv dell’ecclesiologia di Bruno di Segni. C’è chiesa dove c’è la santità: questo spiega e giustifica la lotta instancabile e senza quartiere contro somoniaci e nicolaiti; questo spiega, in ultima analisi, la forte presa di posizione contro Pasquale II.
Conclusione
Bastano questi cenni per dimostrare come risultato certo che l’ecclesiologia costituisce la prospettiva fondamentale di tutta l’opera, anche esegetica, di Bruno di Segni. La caratterizzazione di questa dottrina è in linea con il suo approccio ermeneutico alla Sacra Scrittura: la chiesa è interpretata in prospettiva simbolico-allegorica. In questo modo tutto è riportato all’esistenza concreta della chiesa, chiamata ad essere ciò che da sempre è, perché così è stata voluta da Cristo: la sposa di Cristo, la chiesa santa.
Bruno di innesta nel solco della tradizione patristica, mutuando l’immagine della chiesa-sposa e i suoi contenuti da una linea interpretativa ben consolidata. Questa figura è capace di recuperare anche le dimensioni più negative e peccaminose della chiesa, così come erano percepite nel contesto della riforma gregoriana, impegnata a svellere la simonia e il nicolaitismo. Così, l'ecclesiologia di Bruno di Segni appare la sintesi più riuscita di due prospettive, che si garantiscono e si alimentano a vicenda: l’esperienza della vita ecclesiale, che lo ha visto sempre in primo piano, e la riflessione che scaturisce dalla lectio divina. Questa innerva quella, e quella sostanzia questa, in un vero e proprio circolo virtuoso che molto ha da insegnare anche oggi.
Da questa indissociabilità di dottrina e testimonianza discende il tratto più peculiare e originale dell’ecclesiologia di Bruno di Segni: l’amore alla chiesa, sempre e comunque, al di sopra di tutto.
Amore che traspare nel linguaggio simbolico, che non rimanda però a qualcosa di fittizio, quasi un dilettamento fine a se stesso attraverso immagini poetiche, ma alla realtà della chiesa-mistero, che non può essere esaurita in definizioni giuridiche, ma rimanda sempre oltre, a colui che, versando il suo sangue dalla croce, ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre (cfr Ap 1,6).
[1] Dizionario Enciclopedico Italiano, II, Roma, 1970, 519. Notizie simili anche in F. Caraffa, "Bruno di Segni, santo", in Bibliotheca Sanctorum, III, 1963, 578-580, e in A. Butler, Il primo grande dizionario dei santi secondo il calendario, Piemme, Casale M., 2001, 706-707. Oltre ad alcuni cenni autobiografici nelle sue opere, le notizie su Bruno di Segni si trovano in due testi, a volte discordanti: 1) il Chronicon casinense, l. IV, capp. 31-41, redatta con tutta probabilità da Pietro Diacono: in MGH, SS, VII, 776-783; PL 173, 1040-1042; 2) una Vita Anonymi, scritta da autore anonimo della Chiesa di Segni, probabilmente in relazione alla canonizzazione di Bruno, avvenuta a Segni nel 1183: in M. Marchesi, Vita S. Bruni, seu Brunonis ab anonymo descripta, Venetiis, 1651; anche in J.B. Sollerius, Acta Sanctorum, IV, 1868, 478-484.
[2] S. Brunonis Astensis, Abbatis Montis Casini et Episcopi Signiesium opera omnia, in Migne, J.-P., Patrologiae Cursus completus, tomi CLXIV/ CLXV [ma d'ora in avanti 164/165], Paris, 1854.
[3] Manca in questo elenco il commentario al libro di Isaia, scoperto all'inizio del '900 da A. Amelli, S. Bruno di Segni, Gregorio VII ed Enrico IV, Montecassino, 1903.
[4] De incarnatione Domini et eius sepultura; De sacrificio azymo ad Leonem monachum; De sacramentis Ecclesiae, mysteriis atque ecclesiasticis ritibus.
[5] F. Cipollini (cur.), Bruno di Segni († 1123) e la Chiesa del suo tempo. Giornate di studio: Segni, 4-5 novembre 1999, Edizioni Eva, Venafro, 2001.
[6] G. D’onofrio (Dir.), Storia della teologia nel Medioevo, I-III, Piemme, Casale M. (Al), 1996.
[7] B. Sesboüé, Storia dei dogmi, I-IV, Piemme, Casale M. (Al), 1996-1998.
[8] E. Dal Covolo (cur.), Storia della teologia, I: Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, Dehoniane, Roma-Bologna, 1995.
[9] R. Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, II: Secondo Millennio, San Paolo, Cinisello B., 1997.
[10] M.-D. Chenu, La teologia come scienza nel XII secolo, Jaca Book, 1971.
[11] P. Godet, "Brunon d'Asti ou de Segni (Saint), in Dictionnaire de Théologie Catholique, II, Paris, 1905, col. 1150.
[12] A. Zimmermann, "Bruno von Segni", in Lexicon für Theologie und Kirche, t. II, 1931, col. 596: "Bruno ist wohl der beste Exegete des Mittelalters". Sintomatico che nell'edizione del 1957-1968 esista un accenno fugace e nell'ultima edizione (1993-2001) la voce sia del tutto scomparsa.
[13] L. de Bergeron, "Bruno de Segni (saint)", in Dictionnaire de Spiritualité, I, Paris, 1937, col. 1969.
[14] A. de Mazis, "Bruno de Segni (saint)", in Dictionnaire d'Histoire et Géographie ecclésiastiques, t. X, Paris, 1938, coll. 968-970
[15] Grégoire registra la voce in Geschichte der lateinische Literatur des Mittelalters, t. III, Leipzig, 1931, 49-50; Dictionnaire d'Histoire et Géographie ecclésiastiques, t. X, Paris, 1938, 968-970; Enciclopedia Italiana, t. VII, 1950, 979; Enciclopedia cattolica, t. III, 1950, 156; Dizionario biografico degli Italiani, t. XIV, 1972, 644-647.
[16] G. Penco, Storia del Monachesimo in Italia dalle origini fino al Medievo, Jaca Book, Milano, 19832, 402.
[17] H. de Lubac, Esegesi medievale, 2 voll., Jaca Book, Milano, 1979 [orig. francese: 1959]. Complessivamente de Lubac nomina 22 volte Bruno di Segni; è vero che nomina 72 volte Beda il Venerabile e 68 Bernardo di Chiaravalle, ma è anche vero che cita solo 1 volta Sugero, 3 volte Lanfranco, 4 volte Anselmo di Aosta, 10 volte Alano di Lilla e 26 volte Abelardo.
[18] R. Grégoire, Bruno de Segni, exégète médiéval et théologien monastique, Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, Spoleto, 1965. Da segnalare anche alcune trattazioni parziali dell'opera o del pensiero di Bruno di Segni: F. Capuano, L'ecclesiologia di Bruno Astense, Napoli, 1942; A. Pantoni, "La sacra Scrittura nell'insegnamento monastico di san Bruno di Segni", in C. Vagaggini-G. Penco, Bibbia e spiritualità, Paoline, Roma, 1967, 471-516; G. Ferraro, Lo Spirito Santo nei commentari al IV Vangelo di Bruno di Segni, Ruperto di Deutz, Bonaventura e Alberto Magno, LEV, Città del Vaticano, 1998.
[19] B. Navarra, San Bruno Astense, Vescovo di Segni e Abate di Montecassino, Centro Studi del Lazio, Roma, 1980.
[20] R. Grégoire, "Il pensiero teologico di Bruno di Segni", in F. Cipollini, Bruno di Segni, op. cit., 46. Egli riprende il giudizio di H. Hoffmann, Dizionario biografico degli italiani, XIV, Roma, 1972, 644-647, il quale afferma: "Nelle biblioteche medioevali le opere di Bruno, a giudicare dai manoscritti conservatici e dalle menzioni nei cataloghi, hanno avuto grande diffusione. D'altra parte, egli non pare aver influenzato la tradizione letteraria. Per quanto si apprezzasse l'eloquenza edificante, la scolastica non poté in nulla giovarsi del suo pensiero antiquato".
[21] 160, secondo il Grégoire, che risalgono a un'epoca tra il XIII e il XVI secolo: cfr F. Cipollini, Bruno di Segni, cit. 54. Per il quadro completo, cfr. R. Grégoire, Bruno de Segni, cit., cap. II: "L'oevre littéraire: problèmes textuels, tradition manuscrite et éditions", 59-144.
[22] La prima è quella del 1651, ad opera di Mauro Marchesi: S. Brunonis Astensis, Signiensium episcopi, Opera. Cum expositione in Psalmos Oddonis Astensis monachi benedectini eidem sancto Brunoni ab ipso auctore dicata. Nunc primum duobus tomis distincta, in lucem edita studio et labore D. Mauri Marchesii Casiniensis decani. Venetiis, apud Bertanos, 1651 (opera rieditata nel 1677: Maxima Bibliotheca veterum Patrum, t. XX). La seconda è quella del 1789, ad opera di Bruno Bruni: Sancti Brunonis Astensis episcopi Signiensium et abbatis Montis Casini Opera, in duos tomos distributa, aucta et adnotationibus illustrata, […], Romae, ex typis Joannis Zempel, 1789. La terza è l’edizione del Migne, del 1854, che riproduce i due volumi del Bruni.
[23] B. Gigalski, Bruno, Bischof von Segni und Abt von Montecassino (1049-1123). Sein Leben und seine Schriften. Ein Beitrag zur Kirchengeschichte im Zeitalter des Investiturstreites und zur theologischen Literaturgeschichte des Mittelalters, Münster im W., 1898. L’opera di N. Risi, San Bruno Astense, vescovo di Segni. Sua vita e sue opere (1049-1123), Prato, 1918, è un riassunto e una volgarizzazione del testo del Gigalski.
[24] La data di nascita cade tra il 1045 e il 1049 (Navarra), con il 1049 come data più probabile (Grégoire). Per queste informazioni, cfr R. Grégoire, Bruno de Segni, cit., 11-58.
[25] L'Anonimo afferma che era di umile famiglia, nato nella villa di Soleria; il Chronicon lo fa discendere invece da nobile famiglia, ma una ricerca accurata non dà riscontri in tal senso (cf Grégoire, 16-18, part. note 16-21).
[26] La sua formazione avviene nel monastero di S. Perpetua d'Asti, dipendente dalla grande abbazia di Fruttuaria. L'Anonimo, ma non il Chronicon, parla di un tempo di formazione a Bologna, dove avrebbe studiato trivio e quadrivio, ma la notizia sembra rispondere a un topos: la formazione dell’uomo in uno studium prestigioso, che tuttavia guadagnerà la sua fama un secolo più tardi per la presenza di Graziano.
[27] Lo dice Bruno stesso, nel prologo all'Apocalisse: "Et prius quidem quam ad episcopatus dignitatem, Christo Domino, non meis meritis, me vocante, conscenderem, Ingoni Astensi episcopo I salterium, Senensibus vero canonicis victitabam, Cantica canticorum, prout potui, exposui": PL 165, 605 B. Cfr pure il prologo al Salterio romano: PL 164, 695 B: "Cum adhuc adulescentulus essem, exposui psalterium secundum aliam translationem, quae videlicet translatio pluribus in locis tantum differt ab hac translatione, qua Romana Ecclesia utitur".
[28] Nulla si sa del motivo per cui Bruno si trovi a Siena e faccia parte di quel capitolo cattedrale; ogni tentativo di spiegazione appare una congettura.
[29] Bruno conferma di aver incontrato Berengario: "Talis enim dies Berengarius quidem exstitit, qui de corpore et sanguine Christi philosophice disputando ad impossibilia nos ducebat. Nos tamen, quod ratione non comprehendimus, igne spiritus et charitatis absumimus, et non tantum argumentis, quam sanctorum fidei et auctoritatibus credimus": Exp. in Lev., VII, PL 164, 404 C.
[30] Forse il legame con Pietro Igneo potrebbe spiegare non solo la venuta a Roma, ma la sua permanenza in Toscana. Per uno studio dettagliato su Pietro Igneo, monaco vallombrosano della prima ora, abate del S. Salvatore a Fucecchio, poi cardinale vescovo di Albano cfr G. Miccoli, Pietro Igneo. Studi sull'età gregoriana, Studi storici dell'Istituto Storico per il Medioevo, Roma, 1960.
[31] Alberico, monaco di Montecassino, figura preminente nell'ambiente storico-culturale creato dall'abate Desiderio (il futuro Vittore III, grande consigliere di Gregorio VII), "vir disertissimus ac eruditissimus", secondo il Chronicon, III, 35, sostenne la posizione ortodossa, introducendo nella discussione il termine substantialiter accanto a realiter, già in uso nel linguaggio teologico del tempo. In relazione a questa diatriba, scrisse il trattato De corpore Domini, andato perduto. Sul personaggio, cfr A. Lentini, Alberico di Montecassino nel quadro della riforma gregoriana, in Studi Gregoriani, IV (1952) 55-109.
[32] "Post episcopatum autem […] prophetarum nobilissimum Isaiam, rogatu Damiani venerabilis abbatis, satis compendiose lucideque disserui": PL 165, 605, B
[33] Nella lettera Nosse volumus (del 13 marzo 1088) all'arcivescovo Gebhard di Salzbourg e all'abate Ugo di Cluny, Urbano II nomina esplicitamente tra gli elettori Bruno di Segni. Improbabile che si tratti di scambio di sede e di persona (Segni, sede non cardinalizia, in luogo di Preneste [Palestrina], sede suburbicaria, il cui titolare non risulta presente all'elezione), data la notorietà di Bruno; improbabile che si tratti anche di una specie di delega, in forza della sua funzione di cancelliere della curia romana, in sostituzione del cardinale vescovo di Palestrina; più probabile che, data la sua autorità riconosciuta nella curia romana, come stretto collaboratore dei papi precedenti, sia stato assimilato ai cardinali e contato tra gli elettori.
[34] Anonimo, III, 20.
[35] Il Chronicon (che fissa la consacrazione episcopale di Bruno sotto Urbano II), afferma che era sua intenzione da sempre quella di vestire l'abito di Benedetto: Siena e Roma sarebbero le tappe di un viaggio verso Montecassino, dove intendeva abbracciare la vita monastica. Il Chronicon lascia intendere che Bruno coltivò e alimentò sempre questo desiderio, anche durante il tempo del suo episcopato. La notizia – improbabile – risponde più a scopi celebrativi che a plausibilità storica. Perché mai Bruno doveva scendere fino a Montecassino e non entrare nel monastero di S. Perpetua di Asti, o in quello di Fruttuaria, da cui questo dipendeva? o dirigersi verso la Francia (come aveva fatto, ad esempio, Anselmo d'Aosta), in particolare verso Cluny, in quel periodo al massimo del suo splendore? o fermarsi in Toscana, dove era in atto una riforma formidabile del monachesimo benedettino, con centri come Camaldoli e Vallombrosa?
[36] Gregorio VII era un benedettino, Vittore III era stato abate di Montecassino; Urbano II era stato priore di Cluny, anche Pasquale II era un monaco cluniacense; questi papi, naturalmente, si circondavano di collaboratori che venivano soprattutto dal mondo monastico.
[37] D'altronde, chi fosse Bruno a quel tempo lo si può cogliere dall'affermazione del Chronicon, secondo cui Pasquale II, salito a Montecassino per portare con sé Bruno al sinodo di Benevento (ottobre 1108), dichiarò ai monaci che non solo Bruno era degno di essere abate, ma anche di succedergli nella sede apostolica.
[38] Cfr PL 165, 1139-1142. La lettera a Pasquale II in PL 163, 463 A- 464 A.
[39] Chronicon: PL 164, 95 B, dove l'autore annota: "Talis allocutio inter pontificem et abbatem invidiae et odii fomitem ministravit. Inter caetera vero, quae tunc pontifex in abbatem locutus est, ait: Nisi illum a monasterii administratione removero, ispe suis argumentis Ecclesiae mihi regimen tollet".
[40] Il racconto si trova nel Chronicon universale di Frutolf di Michelsberg, continuato da Ekkard D'Aura, ripreso da M. Manitius, Geschichte der lateinische Literatur des Mittelalters, cit, 350-358: per queste indicazioni, cfr R. Grégoire, Bruno de Segni, cit., 56.
[41] Pasquale II avrebbe messo fine alla questione, ripetendo l'asserzione del Dictatus Papae – condivisa dall'ecclesiologia del tempo – che la chiesa romana non solo non aveva mai conosciuto l'eresia, ma aveva schiacciato tutte le eresie.
[42] Ma è difficile affermare che il fatto non sia vero, dal momento che è attestato anche in Geroch di Reichersberg, De aedificio Dei, PL 194, 1317-1318: cfr R. Grégoire, Bruno de Segni, cit., 56, nota 182.
[43] Quello di Bruno non era stato il solo intervento contro il papa: nella primavera del 1112 i cardinali Leone di Ostia e Giovanni del Tuscolo convocarono in Laterano un sinodo - assente il papa! - che dichiarò eretica, e quindi nulla la sua concessione all'imperatore, riconfermando i decreti di Gregorio VII e di Urbano II. Guido di Borgogna, il futuro Callisto II (1119-1124), il quale, nell'autunno dello stesso anno, convocò a Vienne un concilio che condannò come eretico il trattato e ingiunse al papa, sotto la minaccia di sottrazione dell'obbedienza, di confermare la scomunica delle investiture laiche.
[44] Il papa stesso era stato tra i protagonisti della riforma, chiamato da Gregorio VII e da lui creato cardinale di Santa Prassede e mandato come legato pontificio in Spagna.
[45] Il nesso strettissimo tra scisma ed eresia ritorna per tutto il Medioevo, fino al Grande Schisma d'Occidente, quando i papi delle diverse obbedienze si scomunicheranno come eretici (in quanto avevano prodotto o perpetuato uno scisma nella Chiesa). Lapidario il giudizio di N. Valois nella sua opera sullo scisma d'Occidente: "Quand une personne excommunié avec aggrave et réaggrave continuait à donner le spectacle de son endurcissement, elle se trouvait par ce fait seul assimilée aux hérétiques": N. Valois, La France et le Grand Schisme d'Occident, I, Paris, 1896, 309. Il processo è stato studiato nei suoi esiti più condrattittori e dolorosi in una recente tesi dottorale presso la Pontificia Università Gregoriana: J. Ph. Goudot, De unitate Ecclesiae redintegratione in concilio costantiensi (1414/1415-1418).
[46] Y. M. Congar, Proprietà essenziali della Chiesa, in J. Feiner-M. Lohrer, Mysterium salutis, 7, Queriniana, Brescia, 1972, 507-508, il quale rimanda al famoso studio di G. Hartmann, Der Primat des römischen Bischofs bei Pseudo-Isidor, Stuttgart, 1930.
[47] Cfr, a tal proposito, H. de Lubac, Corpus mysticum. L'Eucharestie et l'Eglise au moyen Age, Aubier-Montaigne, 1943 [trad. it.: Jaca Book, 1882].
[48] B. Bertagna, "Il problema della 'Plenitudo Ecclesiasticae potestatis' nella dottrina ecclesiologica di Giovanni Gerson (1363-1439), in Apollinaris 43 (1970) 563-564.
[49] “E’ detto peccato di scisma quello che si oppone direttamente e di per sé all'unità […]. Il peccato di scisma è propriamente un peccato specifico per il fatto di produrre una separazione dall'unità che dipende dalla carità. Carità che non solo unisce una persona all'altra nel vincolo dell'amore spirituale, ma anche unisce tutta la chiesa nell'unità dello spirito. Per cui sono detti propriamente scismatici coloro che volontariamente e intenzionalmente (propria sponte et intentione) si separano dall'unità della chiesa, che è l'unità fondamentale: infatti, l'unità reciproca dei singoli è ordinata all'unità della chiesa, come la composizione delle singole membra nel corpo umano è ordinata all'unità di tutto il corpo. D'altronde, l'unità della chiesa si può capire in due modi: o nella connessione e comunicazione delle membra della chiesa tra di loro, o anche nel fatto che tutti i membri della Chiesa sono ordinati all'unico capo. […]. Questo capo è Cristo, del quale il sommo pontefice fa le veci nella Chiesa. Perciò sono detti scismatici coloro che rifiutano di obbedire al sommo pontefice, e che ricusano la comunione con i membri della Chiesa che gli obbidiscono”: ST, IIa IIae, q. 39, 1.
[50] F. Zabarella, De jurisdictione, auctoritate et praeminentia imperiali ac potestate ecclesiastica, S. Schard ed, Basel, 1566, f .37, citato in V. Martin, Les origines du Gallicanisme, II, Paris, 1939, 86.
[51] L'espressione è di Umberto di Silvacandida e si trova in un frammento, titolato da G. Alberigo secondo il suo incipit: De s. Romana Ecclesia, e da lui pubblicato in G. Alberigo, Cardinalato e Collegialità. Studi sull'ecclesiologia tra l'XI e il XIV secolo, Firenze, 1969, 20-21. Per la discussione sull'argomento, cfr sempre G. Alberigo, La Chiesa nella storia, Paideia, Brescia, 1988, ma anche Y. M. Congar, "Il posto del papato nella devozione ecclesiale dei riformatori dell'XI secolo", in J. Daniélou- H. Vorgrimler, Sentire Ecclesiam, I, Paoline, Roma, 1964, 329-363, che in appendice riporta per intero il Frammento A De s. Romana ecclesia di Umberto di Silvacandida.
[52] PL 165, 1139 C.
[53] Come si esprime Alberigo già nel titolo del capitolo dedicato all'argomento: "Regime sinodale e chiesa romana tra XI e XII secolo", capitolo II de La chiesa nella storia, cit., 45-83.
[54] "Per 'regime sinodale' intendo l'assetto che nei secoli del primo millennio caratterizza abitualmente le chiese cristiane sia a livello di singole comunità locali che, soprattutto, a livello di grandi unità geografiche. E' possibile parlare di 'regime sinodale' nella misura in cui le riunioni dei vescovi per decidere insieme problemi ecclesiastici non hanno ricorrrenza sporadica o eccezionale, ma invece sono una struttura abituale alla quale fanno capo i problemi maggiori che si manifestano nella vita delle chiese": G. Alberigo, La Chiesa nella storia, cit., 45, nota 1.
[55] Questo fatto rivela la considerazione in cui era tenuto Bruno, dal momento che i legati pontifici era di norma scelti tra i cardinali.
[56] G. Alberigo, La Chiesa nella storia, cit. 66.
[57] Basti qui ricordare che l'idea della gratia capitis sarà proposta anche da Tommaso d'Aquino nella Summa, quaestio VIII della Tertia pars: "De gratia Christi secundum quad est caput Ecclesiae".
[58] Il fatto che - a detta di Alberigo - "mai nel suo [di Ildebrando] Registro si fa menzione della funzione di congoverno dei cardinali col papa" diventa un argomento a favore dell'assunto sopra esposto, quando si veda che "era appunto ciò che gli contestavano gli oppositori antigregoriani": cfr G. Alberigo, La Chiesa nella storia, cit., 63, nota 28.
[59] Nella lettera di convocazione del sinodo del 1074, Gregorio VII dice: "Non incognitum vobis esse credimus in Romana ecclesia iamdudum constitutum esse, ut per singulos annos ad decorem et utilitatem sanctae ecclesiae generale concilium apud sedem apostolicam sit tenendum", Registro, I, 43, citato in G. Alberigo, La Chiesa nella storia, cit. 63, nota 27, il quale elenca il numero impressionante di sinodi convocati da Gregorio: 1074, 1075, 1076, 1078 (quaresima e autunno) 1079, 1080, 1081.
[60] G. Alberigo, La Chiesa nella storia, cit., 68.
[61] Ambedue le espressioni, la prima di Bernardo di Parma († 1263) e la seconda di Giovanni da Legnano († 1384), sono citate in J. Leclerq, "Pars corporis Papae. Le Sacré Collège dans l'ecclesiologie mediovale", in L'homme devant Dieu. Mélanges offerts au Père Henry de Lubac. II: Du Moyen Age au siècle des Lumières, Paris, 1964, 183-198.
[62] Cfr F. Cipollini, Pier Damiani. Figura, aspetti dottrinali e memoria nella diocesi di Velletri, Eva, Venafro, 2003, il quale, alle pagine 133.136, riporta tutto il dibattito in merito.
[63] Così lascerebbe intendere Alberigo, quando nota l'uso del termine coepiscopus per indicare i vescovi della Chiesa: cfr G. Alberigo, La Chiesa nella storia, cit. 70. Ma qui il contesto dice che Pier Damiani ha svolto un'azione di riforma con a nome e con l'autorità della sede apostolica.
[64] Al di fuori di questo riferimento, che deriva dallo scontro tra i due poteri, la teologia del tempo non si applica all’ecclesiologia, se si eccettua la questione dei sacramenti. Per fare un esempio, Anselmo di Aosta (1033-1109), che tanto sviluppo aveva dato alla riflessione teologica, non affronta questioni sulla chiesa, se non l’Epistula de sacrificio azymo et fermentato e l’Epistula de sacramentis Ecclesiae.
[65] Commentarium in Matthaeum, LXVIII, PL 165, 211-215.
[66] Sententiarum liber primus, cap. II: PL 165, 881.
[67] Expositio in Genesim, cap. II, PL 164, 166 A.
[68] Expositio in Apocalispim, VII, PL 165, 639-644.
[69] Expositio in Cantica, III, PL 164, 1255 A.
[70] Expositio in Cantica, II, PL 164, 1241 A.
[71] Expositio in Cantica, IV, PL 164, 1261 D-1262 A.
[72] Expositio de muliere forte, PL 164, 1234 BC.
[73] Sententiae, lib. II, cap. XII: PL 165, 940 C.