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Bruno di Segni e Gregorio VII

di Paolo Pizzuti

Gli anni del pontificato gregoriano costituiscono un periodo della vita di San Bruno che lo segna fortemente e soprattutto imprime una specifica identità a quella che sarà la sua futura azione nella Chiesa e influenza anche il rapporto con i suoi successori.

Per assecondare un desiderio di Gregorio e dare compimento alla promessa fattagli, Bruno mentre si trova a Segni alla vigilia del Concilio di Piacenza, scrive la Vita Leonis IX papae. Questo testo, che affronterà soprattutto il problema della simonia offrendo una soluzione che poi di fatto sarà adottata da Urbano II nell’assise conciliare piacentina, presenta certamente la vita del papa di origine tedesche, inviato a Roma dall’imperatore, ma è anche l’opportunità per raccontare aneddoti della sua presenza nei palazzi apostolici al tempo di Gregorio e per offrire sin da subito una descrizione di quello che per lui non fu solo il papa ma anche un padre e un modello. Ecco come lo descrive già all’inizio dell’opera menzionata:

“C’era in quei giorni lì un monaco romano, chiamato Ildebrando, giovane di nobile indole, di evidente intelligenza e di profonda pietà. Era andato colà sia per desiderio di imparare, sia per vivere sotto la regola di San Benedetto in qualche luogo religioso. Appena conosciuto il proposito, la volontà e l’indole religiosa del giovane, il beato vescovo lo chiamò a sé e lo pregò di tornare a Roma con lui. Ildebrando rispose di no. «Perché no?» gli chiese il vescovo. Perché, - spiegò quello- tu vai a prendere possesso della Chiesa romana non secondo le istituzioni canoniche, ma per mezzo della potestà secolare e regia Poi il vescovo venendo a Roma condusse con sé quel monaco con il cui consiglio e sapienza, in seguito, doveva essere retta e governata la Chiesa romana. Questi è Gregorio VII la cui prudenza, costanza e fortezza, le cui lotte e fatiche, è necessario narrare in altro tempo.”[1]

Bruno per Gregorio ha sempre parole piene di stima e di devozione. Quando scrive la Vita Leonis IX papae sono trascorsi circa dieci anni dalla sua morte. Lo scritto serve a lui per fare memoria di tanti momenti trascorsi insieme, ma anche per non far cadere il ricordo di Gregorio nei lettori e per far conoscere la verità degli accadimenti. La sua era una figura controversa non solo all’esterno della Chiesa romana, tra i seguaci dell’antipapa Clemente III che frequentemente lo diffamarono, ma anche all’interno della cattolicità, ad opera dei membri della fazione filo-imperiale che spesso lo accusarono di eccessiva rigidità e scarsa collegialità. Morto esule a Salerno e ivi sepolto, il suo ricordo poteva facilmente venire meno, per questo Bruno manifesterà l’intenzione, mai realizzata in verità, di scrivere anche la vita di Gregorio. A Gregorio poi era stato contestato di non voler riformare la Chiesa nei suoi costumi, ma di volerla sovvertire nella sua secolare struttura. Affiancare Gregorio a Leone, nell’intento di Bruno, serviva per indicare una continuità nell’azione riformatrice dei due pontefici.

I primi sei anni dell’episcopato di Bruno, vissuti sempre in sintonia con Gregorio VII nel contrastare l’imperatore Enrico IV, risentirono pienamente dei gravi problemi che attraversavano la Chiesa. Era uno dei periodi più accesi per la lotta delle investiture, per la battaglia contro la simonia e la corruzione ecclesiastica. Bruno vi partecipa senza risparmiarsi.

Per questo motivo, nel 1082, facendo ritorno da Roma, mentre la città era sotto la fase iniziale dell’assedio delle truppe imperiali, fu catturato dal conte Ainulfo di Segni che nel frattempo, tradendo la fedeltà giurata al papa, si era schierato con l’imperatore sperando di trarne vantaggio. Fu imprigionato per oltre tre mesi nel castello di Vicoli, poco distante dalla sua sede. Ainulfo pensava che tenere in ostaggio uno dei collaboratori più stretti e fidati del papa gli avrebbe procurato prestigio agli occhi del sovrano, per questo non si fece scrupolo di catturare colui era stato fino a quel momento per lui padre e fratello. Bruno stesso ci parlerà della reclusione nel commento al profeta Isaia[2] ma un riferimento lo troviamo anche nel commento al salmo cinquantaquattro, deve essere stata quindi una esperienza che lo ha provato particolarmente:

“Perché ciò si comprenda più facilmente con un esempio, dirò un fatto accaduto proprio a me. Una volta essendo stato preso prigioniero, fui affidato ad alcuni per essere custodito. Quelli nutrivano per me un odio particolare, erano sempre con me, mi sedevano accanto. Nulla potevo fare senza di loro. Erano con me, ma non per il mio bene né per soddisfare la mia volontà”.[3].

Nella prigionia non lo angustiò tanto la sofferenza e la durezza della reclusione o anche la minaccia della morte, quanto piuttosto lo afflisse il fatto che questo oltraggio gli era stato rivolto da una persona che aveva sempre considerato come un figlio[4]. Liberato dalla dura carcerazione di Vicoli, Bruno rientrò a Segni e poco dopo tornò di nuovo a Roma, affianco al papa. L’Anonimo parla del triplice miracolo dell’acqua tramutata in vino come motivo della liberazione ma comunque l’elemento della prigionia è comune ad altri vescovi del Lazio. In alcuni casi l’azione riformatrice che nella Chiesa stava prendendo piede, si scontrò con l’opposizione, spesso violenta, dei vari signori locali che vedevano in essa un pericolo per la loro supremazia[5].

Nei confronti di Gregorio VII, pur essendo pienamente obbediente, Bruno non fu mai servile. È noto come, con molta franchezza, si oppose al pontefice quando questi pretendeva di finanziare la guerra contro Enrico IV attingendo ai beni ecclesiastici[6] che per loro natura dovevano servire a soccorrere i poveri, per quanto, nel caso specifico, la guerra in questione fosse una guerra difensiva e animata da motivi religiosi. Perché questo rifiuto? Le cause sono molteplici. Seguendo l’opinione condivisa da molti teologi del suo tempo, i beni ecclesiastici, in quanto donati a Dio, non possono essere alienati per nessun motivo perché diventati sua proprietà[7]. La Chiesa aveva sempre comminato la scomunica a chi aveva usurpato i beni ecclesiastici, soprattutto a chi aveva toccato quelli destinati ai poveri, che erano considerati come il patrimonio con cui Dio si prendeva cura dei bisognosi. Inoltre Bruno ha chiara un’idea che esprimerà alcuni decenni dopo, anche in forma epistolare, con Pasquale II: l’obbedienza che si deve ai superiori, e nel suo caso specifico al papa, non può essere superiore all’obbedienza che si deve prima di tutto a Dio e alla sua legge. Anzi, anche il papa è tenuto ad obbedire alla legge di Dio, come ogni cristiano.

Con Gregorio VII, Bruno condividerà anche l’ultimo periodo dell’assedio di Roma, quello più tragico, nel 1084.

Enrico IV era finalmente riuscito ad entrare nell’Urbe con l’intento di rovesciare il papa, insediare l’antipapa Clemente III, precedentemente vescovo di Ravenna, e farsi quindi incoronare imperatore.

Clemente III era una figura molto debole, pacifico per natura, incapace ad opporsi alle pretese dell’imperatore che lo aveva fatto eleggere nell’assemblea di Bressanone, il 25 maggio 1080. Questa riunione dei vescovi, dopo aver decretato la deposizione di Gregorio VII per presunta illegittimità, lo designò come nuovo pontefice[8]. Clemente aveva accettato l’elezione perché convinto che le posizioni di Ildebrando fossero completamente fuori dalla visione tradizionale in cui la Chiesa si era sempre collocata rispetto all’Impero.

Sull’effettiva illegittimità dell’elezione di Clemente non c’è ombra di dubbio perché gestita al di fuori di tutte le norme stabilite da Nicola II. Infatti l’unico cardinale presente era Ugo Candido, figura molto altalenante nella sua fedeltà alla sede romana, più volte scomunicato e poi quasi scomparso nel nulla dopo che l’antipapa aveva provato ad imporlo come vescovo di Palestrina, mentre gli altri elettori erano tutti semplici vescovi, lombardi e tedeschi, convocati apposta dall’imperatore.

Nonostante questo suo temperamento debole, proprio perché sostenuto dal potere imperiale, Clemente riuscirà a riscuotere un pericoloso consenso non solo in gran parte della Germania, ma anche nel nord dell’Italia, nel patriarcato di Aquileia e naturalmente in Romagna, regione da cui proveniva. L’antipapa non si limitò ad un ruolo di facciata ma pose in essere vere e proprie azioni di governo nei confronti delle singole diocesi, soprattutto in quelle che lo riconoscevano come pontefice, legiferando in materia ecclesiastica e indicendo anche sinodi[9] contro le decisioni di Gregorio. Si preoccupò a suo modo di arginare la simonia e la corruzione e portò avanti una sua riforma della Chiesa così come era stata già concepita dall’imperatore Enrico III.

Naturalmente la cristianità viveva questa triste situazione di scisma, con due obbedienze: la romana che riconosceva Gregorio e quella imperiale che guardava a Clemente. Soprattutto la citta di Roma ne soffrì perché dovette affrontare l’alternanza dei due papi, che a seconda delle mutevoli reciproche fortune, risiedevano nell’Urbe esercitando le loro funzioni, e questo non solo con Gregorio ma fino a Pasquale II che risolse definitivamente il problema con la distruzione della tomba di Clemente III nella cattedrale di Civita Castellana.

Al tempo dell’assedio cui abbiamo fatto riferimento prima, non tutta la città di Roma era nelle mani delle truppe imperiali. Alcuni rioni restavano ancora sotto il controllo delle milizie pontificie e soprattutto erano ben presidiati i ponti del Tevere che impedivano l’accesso al Vaticano[10] e alla basilica di san Pietro. Gregorio VII controllava saldamente il colle vaticano e la Basilica che erano ben protetti dalle possenti mura leonine edificate nel IX secolo da Leone IV a difesa degli attacchi saraceni. Clemente aveva invece occupato il palazzo Lateranense e la Basilica annessa che sin dalla sua fondazione era la sede istituzionale del vescovo di Roma.

Rifugiatosi col papa all’interno di Castel Sant’Angelo, Bruno nel frattempo compone il commento al profeta Isaia su richiesta del cardinale Damiano. In linea con la sua indole monastica, non interrompe l’attività esegetica, neanche in questa circostanza.

Il papa Gregorio VII venne liberato dai Normanni accorsi in suo aiuto sotto la guida di Roberto il Guiscardo. Le truppe normanne entrarono in città il 21 maggio 1084 e dopo tre giorni di dura battaglia con le milizie imperiali riuscirono a liberare il papa. Iniziò quindi un saccheggio spietato, accompagnato da brutali angherie, in interi rioni della città, soprattutto in quelli fedeli a Clemente, quasi a feroce compenso per il soccorso prestato a Gregorio. Le truppe normanne, circa 36000 uomini, fecero irruzione proprio dal tratto di mura adiacente al Laterano e, appiccando fuoco a tutto quello che incontravano sul loro cammino, si diressero verso il colle vaticano percorrendo un tratto di strada che ancora oggi porta il loro nome a memoria della tragedia. Tra i luoghi importanti che subirono la furia normanna troviamo anche la Basilica di San Clemente, antico titolo cardinalizio che fu prima di San Leone IX e in seguito lo sarà di Pasquale II.

La crudeltà del saccheggio normanno deve aver particolarmente colpito il giovane vescovo di Segni perché anni dopo, da abate di Montecassino, si troverà a vivere una situazione analoga, ma troverà una soluzione completamente differente. Quando i conti di Aquino si impadronirono del castello di Termini, proprietà dell’abbazia cassinese, Bruno chiamò in suo aiuto Roberto di Capua che interviene con le sue milizie. Dopo quindici giorni di assedio, il 13 agosto del 1108, gli aquinati supplicarono Bruno di lasciarli liberi e si impegnarono a restituire il castello. Bruno licenziò Roberto e pagò il cospicuo compenso di 200 libbre d’oro attingendo al patrimonio dell’abbazia senza pretendere nulla in cambio dai ribelli ed evitando soprattutto il saccheggio che avrebbe portato morte e violenza nella cittadina.

Per scampare alla rivolta del popolo romano, giustamente inferocito dalla crudeltà dei Normanni intervenuti in suo soccorso, Gregorio VII, per evitare il peggio, fuggì a Salerno dove mori nel 1085.

Sulla strada dell’esilio, il papa fece tappa a Montecassino e vi rimase per qualche mese. Bruno fu con molta probabilità al seguito del pontefice: “Gregorio VII, per sottrarre Roma a più orribili disastri, se ne partì in volontario esilio per riparare a Salerno. Ve lo accompagnò il fidissimo Bruno, che non volle allontanarsi da lui nella dura sorte[11].

A Montecassino Bruno ebbe modo di conoscere l’abate Desiderio che sarebbe succeduto a Gregorio dopo la sua morte. Desiderio rimase colpito da Bruno e una volta diventato papa lo volle come suo primo e diretto collaboratore.

 

Segni, agosto 2021

 

[1]  Il primo incontro tra il futuro Leone IX e Ildebrando, in seguito Gregorio VII, avviene a Worms mentre il vescovo di Toul stava recandosi a Roma per essere incoronato papa su proposta dell’imperatore. Troviamo la descrizione nella Vita Leonis Papae IX, PL 165, c. 1112. Trad. it- a cura di B. Navarra, San Bruno Astense, p. 94-95.

[2]  Il commento al profeta Isaia, pur se presente nell’elenco delle opere indicate dal Chronicon e dalla Vita Anonima, ma non nel De Viris illustribus, non è riportato nella Patrologia Latina del Migne. È stato scoperto solo nel 1897 da Ambrogio Amelli. Il testo attribuito all’inizio a Beda il Venerabile è stato poi stato restituito a Bruno in seguito al ritrovamento di una ulteriore copia nell’archivio capitolare di Verona.

[3]  Expositio in Psalmos - LIV,  PL 164, c.895 D. Trad. it. a cura di B. Navarra, San Bruno Astense, p. 84.

[4]  Anonimo, Vita Sancti Brunonis, Mauro Marchesi, Venezia 1651, c.482, A.

[5]  P. Toubert, Feudalesimo mediterraneo, p. 283.

[6]  G. M. Cantarella, Pasquale II, p. 122.

[7]  G. Miccoli, Chiesa gregoriana, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 32.

[8]  A. Fliche, Storia della Chiesa, p. 208.

[9]  Ibidem, p. 208.

[10]  B. Navarra, San Bruno Astense, p. 82.

[11]  N. Risi, San Bruno Astense. Vescovo di Segni, sua vita e sue opere, Prato 1918, p. 48.

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